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lundi, 31 janvier 2011

Suzy Solidor - Les filles de Saint Malo

Suzy Solidor

Les filles de Saint Malo

 

00:05 Publié dans Musique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : bretagne, saint malo, suzy solidor, chanson, france, années 30, années 40 | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 30 janvier 2011

Lale Andersen - Wo die Nordseewellen...

Lale Andersen

Wo die Nordseewellen...

samedi, 15 janvier 2011

Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler

Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Nato a Blankenburg, nel Magdeburgo, nel 1880 e morto a Monaco nel 1936 – in buon punto per evitare le conseguenze del suo rifiuto di approvare il violento antisemitismo del regime hitleriano -, Oswald Spengler è stato uno dei filosofi più discussi e controversi del XX secolo, suscitando fervidi entusiasmi e ripulse totali e irrevocabili. Per alcuni egli è stato il teorico del nazionalsocialismo, nella misura in cui – pur non aderendo formalmente ad esso – aveva sostenuto la necessità di instaurare un forte potere militare e affermato la superiorità della razza «bianca» e della preponderanza della Germania nel quadro politico mondiale. Altri hanno visto in lui il maggiore erede di Nietzsche, della sua fedeltà alla terra e della volontà di potenza, oltre che un continuatore del relativismo storicistico di Dilthey e, quindi, il legittimo continuatore della tradizione filosofica tedesca di fine Ottocento.

La sua concezione organicistica delle civiltà, secondo la quale ogni civiltà è equiparabile a un essere vivente che nasce, si sviluppa, decade (nella fase della «civilizzazione») e, da ultimo, muore, apparve – ed era – una tipica forma di biologismo sociale, dominata com’era da una darwiniana strength for life, ove le civiltà vecchie e deboli devono cedere il passo a quelle giovani e forti. Concezione che a molti non piacque, e che tuttavia appariva fondata su cospicui elementi di realtà oggettiva, e che tanto più difficile sembrava smentire quanto più l’Autore dispiegava, per sostenerla, una immensa congerie di osservazioni tratte dalla musica, dall’architettura, dalla storia delle religioni e da quella dell’economia e della tecnica.

Piacque, soprattutto ai Tedeschi, l’implicito machiavellismo sotteso a tutta l’opera: per cui, nelle convulsioni della disfatta al termine della prima guerra mondiale (Il tramonto dell’Occidente venne pubblicato tra il 1918 e il 1922, ossia negli anni più bui mai vissuti sino ad allora dalla Germania), era possibile intravedere una ripresa e, forse, persino una futura rivincita, a patto di sapere accettare il proprio destino e di percorrere sino in fondo la strada tracciata dalle presenti forze storiche, materiali non meno che spirituali.

Otto, secondo Spengler, sono le civiltà che si sono succedute, dall’origine ad oggi, nel panorama della storia mondiale, sviluppando quei «cicli di cultura» i quali tendono a ripetersi con caratteristiche sostanzialmente analoghe, pur nella diversità delle situazioni specifiche. Esse sono state la babilonese, l’egiziana, la indiana, la cinese, la greco-romana (o «apollinea»), l’araba (o «magica»), quella dei Maya e, infine, l’occidentale (che Spengler definisce «faustiana»). Si sono avvicendante secondo una cadenza di circa mille anni, soggiacendo a leggi in tutto e per tutto simili a quelle degli organismi viventi e finendo per estinguersi e scomparire completamente – tranne la nostra, che è destinata, però, a concludersi come le altre.

Si suole affermare che qualcosa di una civiltà continua a permanere anche al di là di essa, ma è un errore. Ogni civiltà è destinata a una fine totale, che trascina con sé anche i valori da essa emanati; nessun valore può sopravvivere al di là della civiltà che lo ha prodotto. I valori sono deperibili, proprio come le civiltà; possono, semmai, essere sostituiti da altri valori, frutto di altre civiltà. Non esistono valori assoluti, così come non esistono verità assolute; ogni verità è relativa al contesto della civiltà che la pone e, esauritasi quest’ultima, anche il concetto di verità si sbriciola, si frantuma. La stessa idea di progresso, non è altro che una illusione.

Quanto alla civiltà occidentale, essa è ormai quasi giunta al termine del proprio ciclo vitale e, quindi, alla successiva, inevitabile estinzione: non resta che prenderne atto e seguire il destino che ci si prepara, rinunciando alla chimera di poter tramandare valori imperituri o di poter mutare il corso della storia, bensì sfruttando l’ultimo guizzo di luce prima del crepuscolo.

Ma già si fa avanti la prossima civiltà, che prenderà il posto di quella occidentale: la civiltà russa, che dominerà a sua volta la scena della storia mondiale, finché non avrà esaurito il suo ciclo e scomparirà a sua volta.

La civiltà occidentale, dunque, non ha nulla di speciale, in se stessa, perché si debba pensare che possa sfuggire al destino di tutte le altre civiltà. Anzi, essa è già entrata, e da tempo, nella fase della civilizzazione, caratterizzata dal gigantismo delle sue creazioni esteriori e dal progressivo esaurimento del suo spirito vitale, della sua «anima».

D’altra parte, negli ultimi secoli della sua vicenda millenaria si è prodotto un evento finora sconosciuto alla storia dell’umanità: il sopravvento della tecnica, della macchina, sulla natura e sull’uomo stesso, che ne è divenuto lo schiavo. È nata una figura nuova, quella dell’ingegnere; che, molto più importante dell’imprenditore o dell’operaio dell’industria, tiene in mano i futuri sviluppi della civiltà occidentale. Ma il tempo di quest’ultima è ormai quasi compiuto; la fine è imminente. Si tratta soltanto di vedere se l’uomo occidentale saprà assecondare il movimento della storia, creando una nuova forma di potenza – quella del signore, che non si cura dei profitti personali come fa il mercante e che, a differenza di lui, mira ad instaurare una società basata sull’armonia generale e non sul vantaggio egoistico di pochi capitalisti.

Questa posizione spiega l’atteggiamento di cauto interesse nei confronti del socialismo, inteso come principio etico più che come concreto movimento storico; e coniugato, d’altronde, con un forte elemento di tipo nazionalistico, sì da far pensare più al nazionalsocialismo che al comunismo sovietico. Ma forse, dopotutto, Spengler aveva la vista più lunga di quanto non sembrasse ai suoi detrattori e aveva intuito che, dietro le grandi differenze esteriori, nazismo e stalinismo avevano più cose in comune di quante non fossero disposti ad ammettere sia l’uno che l’altro. Per cui la sua profezia, che alla fine l’idea del denaro si sarebbe scontrata con l’idea del sangue; ossia che i valori mercantili sarebbero venuti a una resa dei conti con i valori aristocratici, conteneva elementi tutt’altro che peregrini; tanto è vero che molti intellettuali europei di destra – a cominciare da Julius Evola, traduttore dal tedesco de Il tramonto dell’Occidente nella nostra lingua – avrebbero visto nella seconda guerra mondiale, a torto o a ragione, precisamente questo tipo di scontro finale. E così la vide anche Berto Ricci, andato volontario a combattere (e a morire) in Libia contro gli Inglesi, lui sposato e padre di famiglia, nella speranza di vedere – come scrisse in una delle sue ultime lettere – il sorgere di un mondo un po’ meno ingiusto, un po’ meno ladro di quello allora esistente.

Scriveva, dunque, Oswald Spengler nelle pagine conclusive de Il tramonto dell’Occidente (titolo originale: Der Untergang des Abendlandes, traduzione italiana di Julius Evola, Longanesi &C., Milano, 1957, 1978, vol. 2, pp. 1.390-98):

…contemporaneamente al razionalismo, si giunge alla scoperta della macchina a vapore che sovverte tutto e trasforma dai fondamenti l’immagine dell’economia. Fino a allora la natura aveva avuto la parte di una coadiutrice; ora la si riduce a una schiava e il suo lavoro, quasi per scherno, lo si calcola secondo cavalli-vapore. Dalla forza muscolare del negro sfruttata nelle aziende organizzate, si passò alle riserve organiche della scorza terrestre dove l’energia vitale di millenni è immagazzinata sotto specie di carbone, e infine lo sguardo si è portato sulla natura inorganica, le cui forze idrauliche sono state già arruolate ad integrare quelle del carbone. Coi milioni e miliardi di cavalli-vapore la densità di popolazione raggiunge un livello che nessun’altra civiltà avrebbe mai ritenuto possibile. Questo aumento è conseguenza della macchina, la quale vuol essere servita e diretta, in cambio centuplicando le forze di ogni individuo. È con riferimento alla macchina che la vita umana va ora a rappresentare un valore. Il lavoro diviene la grande parola d’ordine del pensiero etico. Già nel diciottesimo secolo esso in tutte le lingue aveva perduto il suo significato negativo originario. La macchina lavora e costringe l’uomo a lavorare insieme ad essa. Tutta la civiltà è giunta ad un tale grado di attivismo, che sotto di esso la terra trema.

E ciò che si è svolto nel corso di appena un secolo è uno spettacolo di una tale potenza, che l’uomo di una futura civiltà, di una civiltà con una anima diversa e con diverse passioni, avrà il sentimento che la stessa natura ne doveva esser stata scossa nel suo equilibrio. Anche in altri tempi la politica passò sopra città e popoli e l’economia umana incise profondamente sui destini del regno animale e vegetale; ma tutto ciò sfiorò appena la vita e di nuovo sparì. Invece questa tecnica lascerà le sue tracce anche quando tutto sarà dimenticato e sepolto. Questa passione faustiana ha trasformato l’imagine della superficie terrestre.

Qui ha agito un impulso della vita a trascendere e ad innalzarsi che, intimamente affine a quello del gotico, al tempo dell’infanzia della macchina a vapore trovò espressione nel monologo del Faust di Goethe. L’anima ebbra vuol portarsi di là da spazio e tempo. Una indicibile nostalgia la attira verso lontananze sconfinate. Ci si vorrebbe staccare dalla terra, ci si vorrebbe perdere nell’infinito, si vorrebbero sciogliere i vincoli del corpo ed errare nello spazio cosmico fra le stelle. Ciò che all’inizio fu cercato dal fervido empito ascensionale di un San Bernardo, ciò che Grünewald e Rembrandt evocarono negli sfondi dei loro quadri e Beethoven negli accordi trasfigurati dei suoi ultimi quartetti, torna di nuovo nell’ebbrezza spirituale donde procede questa fitta serie di invenzioni. È così che si è formato un sistema fantastico di mezzi di comunicazione che ci fa attraversare interi continenti in pochi giorni, e ci porta con città galleggianti di là da ogni oceano, che trafora montagne e lancia convogli a velocità pazze nei labirinti delle ferrovie sotterranee; e dalla veccia macchina a vapore, da tempo esaurita nelle sue possibilità, si è passati ai motori a gas per infine staccarsi dalle vie e dalle rotaie ed elevarsi negli spazi. Così la parola parlata in un attimo può esser inviata oltre ogni mare; prorompe il piacere per records di ogni specie e per le dimensioni inaudite, ambienti giganteschi vengono costruiti per macchine titaniche, navi enormi e ponti ad incredibile gettata, costruzioni pazzesche che raggiungono le nubi, forze meravigliose incatenate in un punto in modo tale che basta la mano di un bambino per metterle in movimento, opere di cristallo e di acciaio che vibrano nel frastuono di ogni specie di meccanismi nelle quali, questo essere minuscolo, si muove come un signore assoluto sentendo finalmente sotto di sé la natura.

E queste macchine nella loro forma sono sempre più disumanizzate, sempre più ascetiche, mistiche, esoteriche. Esse avvolgono la terra con una rete infinita di forze sottili, di correnti e di tensioni. Il loro coro si fa sempre più spirituale, sempre più chiuso. Queste ruote, questi cilindri, queste leve non parlano più. Ciò che in esse è più importante si ritira all’interno. La macchina è stata sentita come qualcosa di diabolico, e non a torto. Agli occhi del credente essa rappresenta la detronizzazione di Dio. Essa pone la causalità sacra nelle mani dell’uomo e questi la mette silenziosamente, irresistibilmente in moto con una specie di preveggente onnisapienza.

Mai come oggi un microcosmo si è sentito superiore al macrocosmo. Oggi vediamo piccoli esseri viventi che con la loro forza spirituale hanno ridotto il non vivente a dipendere da loro. Nulla sembra eguagliare un simile trionfo che è riuscito ad un’unica civiltà e forse solo per la durata di qualche secolo.

Ma proprio per tal via l’uomo faustiano è divenuto schiavo della sua creazione. Nelle sue mosse così come nelle sue abitudini di vita egli sarà spinto dalla macchina in una direzione sulla quale non vi sarà più né sosta, né possibilità di tornare indietro. Il contadino, l’artigiano, perfino il commerciante appaiono d’un tratto insignificanti di fronte a tre figure cui lo sviluppo della macchina ha dato forma: l’imprenditore, l’ingegnere e l’operaio industriale. In questa civiltà, e in nessun’altra al di fuori di essa, da un piccolo ramo dell’artigianato, cioè dall’economia dei manufatti, si è sviluppato il possente albero che oscura ogni altra professione: il mondo economico dell’industria meccanica. E questo mondo costringe sia l’imprenditore che l’operaio industriale ad obbedirgli. Entrambi sono gli schiavi, non i signori della macchina che ora comincia a manifestare il suo occulto potere demonico. Ma se le attuali teorie socialistiche hanno solo voluto vedere il rendimento dell’operaio non avanzando che per il lavoro di questi le loro rivendicazioni, un tale lavoro è tuttavia reso possibile esclusivamente dall’attività decisiva e sovrana dell’imprenditore. Il famoso detto del braccio possente che fa arrestare tutte le ruote è un errore. Per fermarle, non c’è bisogno di essere operai. Ma per tenerle in moto, non basta essere operai. È l’organizzazione, è il dirigente che costituisce il centro di tutto questo regno artificiale e complesso della macchina. Il pensiero, non il braccio, tiene insieme un tale regno. Ma proprio per questo, per mantenere in piedi siffatto edificio perennemente pericolante, una figura è ancor più importante della stessa energia di nature dominatrici in veste di imprenditori che fa scaturire da suolo intere città e che sa trasformare l’immagine del paesaggio – una figura, che nelle lotte politiche si è soliti dimenticare: l’ingegnere, sapiente sacerdote della macchina. Non sol il livello ma la stessa esistenza dell’industria dipendono dall’esistenza di centinaia di migliaia di menti qualificate e ben addestrate che dominano e fanno progredire incessantemente la tecnica.

L’ingegnere è propriamente il silenzioso dominatore e il destino dell’industria meccanica. Il suo pensiero è come possibilità quel che la macchina è come realtà. Si è temuto, materialisticamente, l’esaurirsi dei giacimenti di carbone. Ma finché esisteranno degli scopritori di sentieri di un rango superiore pericoli di tal genere saranno inesistenti. Solo quando questo esercito di inventori, il cui lavoro intellettuale forma una interna unità con quello della macchina, non avrà più una posterità, l’industria, malgrado la presenza di imprenditori e di operai si spegnerà. Anche se la salute dell’anima dei migliori delle future generazioni venisse considerata più importante di tutta la potenza della terra e se per influenza di quella mistica e di quella metafisica che oggi stano soppiantando il razionalismo il sentimento del satanismo della macchina guadagnasse terreno in una élite spirituale sollecita di quella salute – sarebbe l’equivalente del passaggio da Ruggero Bacone a Bernardo di Chiaravalle – anche in questo caso nulla arresterà la conclusione di questo grande dramma dello spirito nel quale le forze materiali hanno solo una parte secondaria.

L’industria occidentale ha sostato le vie già seguite dal commercio delle altre civiltà. Le correnti della vita economica si portano verso le sedi del «re carbone» e le aree ricche di materie prime; la natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto specie di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana; nel contemplarla, muore il Faust della seconda parte. Del poema, nella quale il lavoro dell’imprenditore ha avuto la sua suprema trasfigurazione. È la suprema antitesi all’esistenza statica e sazia del periodo imperiale antico. L’ingegnere è il tipo più lontano dal pensiero giuridico romano ed egli otterrà che la sua economia abbia un proprio diritto: un diritto nel quale le forze e le opere prenderanno il posto delle persone e delle cose.

Ma non è meno titanico l’assalto sferrato dal danaro contro questa potenza spirituale. Anche l’industria è legata alla terra – come l’elemento contadino. Essa ha le sue sedi, i suoi impianti, le sue sorgenti di energia vincolate al suolo. Solo l’alta finanza è completamente libera, completamente inafferrabile. A partire dal 1789 le banche e quindi le Borse si sono sviluppate come una potenza autonoma grazie al bisogno di credito determinato dall’enorme incremento dell’industria e, come il danaro in tutte le civilizzazioni, questa potenza ora vuol essere l’unica potenza. L’antichissima lotta fra economia di produzione e economia di conquista prende ora le proporzioni di una lotta gigantesca e silenziosa di spiriti svolgentesi sul suolo delle città cosmopolite.

È la lotta disperata del pensiero tecnico, il quale difende la sua libertà contro il pensiero in funzione di danaro.

La dittatura del danari si consolida e si avvicina ad un apice naturale – ciò sta accadendo oggi nella civilizzazione faustiana come già è accaduto in ogni altra civilizzazione. Ed ora interviene qualcosa che può esser compreso solo da chi ha penetrato il significato essenziale del danaro faustiano. Se il danaro faustiano fosse qualcosa di tangibile, di concreto, la sua esistenza sarebbe eterna; ma poiché esso è una forma del pensiero, esso scomparirà non appena il mondo dell’economia sarà stato pensato a fondo: scomparirà per l’esaurirsi della materia che gli fa da substrato. Quel pensiero è già penetrato nella vita della campagna mobilitando il suolo; esso ha trasformato in senso affaristico ogni specie di mestiere; oggi esso penetra vittoriosamente nell’industria per mettere le mani sullo stesso lavoro produttivo dell’imprenditore, dell’ingegnere e dell’operaio. La macchina col suo seguito umano, la macchina, questa vera sovrana del secolo, è in procinto di soggiacere ad una più forte potenza. Ma questa sarà l’ultima delle vittorie che il danaro può riportare; dopo, comincerà l’ultima lotta, la lotta con la quale la civilizzazione conseguirà la sua forma conclusiva: la lotta tra danaro e sangue.

L’avvento del cesarismo spezzerà la dittatura del danaro e della sua arma politica, la democrazia. Dopo un lungo trionfo dell’economia cosmopolita e dei suoi interessi sulla forza politica creatrice, l’aspetto politico della vita dimostrerà di essere, malgrado tutto, il più forte. La spada trionferà sul danaro, la volontà da signore piegherà di nuovo la volontà da predatore. Se designiamo come capitalismo le potenze del danaro e se per socialismo s’intende invece la volontà di dar vita a un forte ordinamento politico-economico di là da ogni interesse di classe, ad un sistema compenetrato da una preoccupazione aristocratica e da un sentimento di dovere che mantengano il tutto in una salda forma in vista della lotta decisiva della storia – allora lo scontro tra capitalismo e socialismo potrà significare anche quello fra danaro e diritto. Le potenze private dell’economia vogliono avere mani libere perla conquista delle grandi fortune. Non intendono che nessuna legge sbarri loro la via. Vogliono leggi che vadano nel loro interesse e per questo si servono dello strumento che esse stesse si sono create, della democrazia e dei partiti pagati. Per far fronte ad un tale assalto il diritto ha bisogno di una tradizione aristocratica, dell’ambizione di forti schiatte capaci di trovare la loro soddisfazione non nell’accumulazione delle ricchezze bensì nei compiti propri ad un’autentica razza di capi di là da ogni vantaggio procurato dal danaro. Una potenza può esser rovesciata solo da un’altra potenza, non da un principio; ma al di fuori della potenza del danaro non ve ne è un’altra, oltre a quella ora detta. Il danaro potrà essere spodestato e dominato soltanto dal sangue. La vita è la prima e l’ultima delle correnti cosmiche in forma microcosmica. Essa costituisce la realtà per eccellenza nel mondo considerato come storia. Di fronte all’irresistibile ritmo agente nella successione delle generazioni alla fine scompare tutto ciò che l’essere desto ha costruito nei suoi mondi dello spirito. Nella storia l’essenziale è sempre e soltanto la vita, la razza, il trionfo della volontà di potenza, non il trionfo delle verità, delle invenzioni o del danaro. La storia mondiale è il tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più piena, più sicura di sé: il suo diritto all’esistenza, non curandosi se ciò venga riconosciuto giusto o ingiusto dall’essere desto. La storia ha sempre sacrificato la verità e la giustizia alla potenza, alla razza, condannando a morte gli uomini e i popoli per i quali la verità è stata più importante dell’azione e la giustizia più essenziale della potenza. Così lo spettacolo offerto da una civiltà superiore, da questo meraviglioso mondo di divinità, di arti, di idee, di battaglie, di città, si chiude di nuovo con i fatti elementari del sangue eterno, che fa tutt’uno con l’onda cosmica in perenne circolazione. Come già il periodo imperiale cinese e quello romano ce l insegnano, l’essere desto con tutta la sua ricchezza delle sue forme è destinato a tornare silenziosamente al servizio dell’essere, della vita; il tempo trionferà dello spazio ed è esso che col suo corso inesorabile incanalerà col suo corso fuggevole, che sul nostro pianeta rappresenta la civiltà, in quell’altro accidente, che è l’uomo: forma nella quale l’accidente «vita» scorre per un certo periodo, mentre nel mondo illuminato che si apre al nostro sguardo appaiono, dietro a tutto ciò, gli orizzonti in moto della storia della terra e di quella degli astri.

Ma per noi, posti da un destino in questa civiltà e in questo punto del suo divenire in cui il danaro celebra i suoi ultimi trionfi e in cui il suo erede, il cesarismo, ormai avanza silenziosamente e irresistibilmente, è strettamente definita la direzione di quel che possiamo volere e che dobbiamo volere, a che valga la pena di vivere. A noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l’altra. Noi ci troviamo invece di fronte all’alternativa di fare il necessario o di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storia sarà in ogni caso realizzato: o col concorso dei singoli o ad onta di essi.

Ducunt fata volentem, nolentem trahunt.

Come ha osservato Domenico Conte (in Introduzione a Spengler, Laterza Editori, Bari, 1997, p. 30 sgg.), sono almeno tre le prospettive dalle quali Spengler osserva il movimento della storia universale.

La prima è una dimensione “popolare”, che vede la contrapposizione pura e semplice fra mondo della natura e mondo della storia (ciò che riecheggia la distinzione diltheyana fra scienze della natura e scienze dello spirito: cfr. F. Lamendola, Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey). Il mondo della natura è statico, quello della storia è dinamico; il mondo della natura è sottoposto a leggi regolari e costanti, quello della storia è unico e irripetibile.

La seconda dimensione è, propriamente, quella della filosofia della storia, basata sulla concezione organicistica delle civiltà, che egli assimila a degli organismi viventi. È questo l’aspetto più noto della sua concezione filosofica, quello che ha destato maggiori consensi ma anche le critiche più pesanti, da parte di coloro i quali hanno evidenziato l’arbitrarietà di una analogia in senso stretto fra la vita degli organismi e la «vita» delle civiltà umane.

La terza prospettiva, che potremmo definire metafisica, è quella che ruota intorno al concetto spengleriano di «anima» delle civiltà. È qui che il pensatore tedesco ha sviluppato la parte più originale delle sue riflessioni, istituendo complessi e vorticosi parallelismi fra gli elementi formali delle singole civiltà e spaziando, con tono ispirato e quasi da veggente, attraverso i campi più svariati dell’arte, della scienza e della tecnica. Ed è qui che ha dispiegato quel suo stile turgido e solenne, drammatico e affascinante, che gli ha conquistato la simpatia di tante schiere di lettori ma anche, inevitabilmente, la diffidenza o il disdegno di molti filosofi di più austera concezione, ivi compresi gli idealisti ideali e, segnatamente, Benedetto Croce.

Quanto a noi, quello che più ci colpisce nella concezione della storia di Spengler è la brutalità, per così dire, ovvero la crudezza del suo vitalismo biologico. Unendo la volontà di Schopenhauer con la selezione naturale di Darwin, l’autore de Il tramonto dell’Occidente delinea un mondo della storia dominato da inesorabili leggi biologiche, ove tutto ciò che resta della libertà umana non è altro che la libertà di “scegliere” un destino tra segnato dalle forze della storia stessa, oppure di precipitare nell’impotenza più completa.

Spengler, come si è visto, è estremamente esplicito a questo riguardo: nella storia l’essenziale è sempre e soltanto la vita, la razza, il trionfo della volontà di potenza, non il trionfo delle verità, delle invenzioni o del danaro. La storia mondiale è il tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più piena, più sicura di sé: il suo diritto all’esistenza, non curandosi se ciò venga riconosciuto giusto o ingiusto dall’essere desto. La storia ha sempre sacrificato la verità e la giustizia alla potenza, alla razza, condannando a morte gli uomini e i popoli per i quali la verità è stata più importante dell’azione e la giustizia più essenziale della potenza.

Questo è il dramma di una concezione della storia chiusa in sé stessa, opera di un essere umano gettato a caso nel mondo e destinato a sparire, come già sono scomparse tante altre forme di vita prima di lui. Solo quando si dà per scontata la assoluta insignificanza dell’uomo in quanto persona unica e irripetibile, nonché la radicale immanenza della storia, si può giungere a proclamare, senza ombra di turbamento “sentimentale”, che la verità non ha alcuna importanza e che quello che conta è solo la potenza.

Peggio ancora, Spengler afferma – senza batter ciglio – che la storia è il tribunale del mondo, il che equivale ad innalzare la realtà effettuale al di sopra di tutto e implica, come logica conseguenza, l’adorazione dell’esistente, visto come l’affermazione, attraverso la lotta, di ciò che è migliore, nel senso di più forte. Si tratta di un tribunale che non riconosce valori o principi, ma solo dati di fatto; e che si inchina solo davanti a quelle forze storiche che sanno imporre, nietzscheanamente, una vita più piena e più sicura di sé, non una vita più giusta o più buona.

Nel clima di generale disorientamento intellettuale e morale dei primi decenni del Novecento, milioni di persone hanno fatto propria una tale filosofia della forza e si sono lasciate trascinare da capi politici che l’avevano adottato come loro credo incondizionato.

Negli ultimi giorni della sua vita, quando i carri armati sovietici irrompevano già per le vie di una Berlino distrutta dai bombardamenti aerei, Hitler ebbe a riconoscere – assai a denti stretti – che i Russi, alla fine, si erano dimostrati più forti dei Tedeschi e che, quindi, meritavano di divenire i nuovi signori dell’Europa. Anche Mussolini, negli ultimi tempi della sua vita, si era più volte lamentato del fatto che gli Italiani non erano stati all’altezza del grande destino offertosi a portata delle loro possibilità e che, pertanto, avevano meritato pienamente la sconfitta.

Ma se la storia non è altro che un tribunale del mondo fondato sul diritto del più forte, bisogna sempre aspettarsi che la forza di oggi ceda, domani, davanti a una forza più grande o semplicemente più spregiudicata; il che equivale a fare della storia umana una giungla insanguinata, popolata di zanne e di artigli sempre protesi a ghermire la preda, lacerarla e massacrarla. Il tribunale assomiglia pericolosamente a un mattatoio, da cui si levano incessantemente muggiti di terrore e grida di dolore; un tribunale che sanziona il diritto della forza in luogo della forza del diritto.

Se così fosse, vorrebbe dire che nessun progresso è stato compiuto dai tempi degli eroi omerici, trascinati in una spirale infinita di violenza per acquisire la gloria, che richiede sempre nuova violenza per conservare ed accrescere la gloria stessa: e ciò in un mondo ove tutti mirano allo stesso obiettivo, e ridotto, quindi, a un eterno, sanguinoso campo di battaglia di ciascuno contro tutti. Spengler, nemico dell’idea di progresso, non aveva alcuna difficoltà ad ammetterlo; ma noi, che pure non adoriamo l’idea (illuministica) del progresso, possiamo ammettere che la civiltà cui apparteniamo non abbia saputo minimamente elaborare l’insegnamento di quelle che l’hanno preceduta, per instaurare non già un mondo concreto di giustizia e armonia, ma almeno l’idea di una superiore giustizia e di una necessaria armonia?

vendredi, 14 janvier 2011

La metafisica de "L'Operaio" di Ernst Jünger

La metafisica de "L’operaio" di Ernst Jünger

Luca CADDEO

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Il progresso tecnico che ancora alla fine dell’800 sembrava condurre l’uomo ad un mondo più giusto e libero dal dolore, pareva mostrare, all’alba del secolo ventesimo, il suo terribile volto di Giano. Gli sfaceli della guerra e la povertà da essa cagionata producevano quelle ingiustizie che, nell’ottica marxista, e ben presto nazionalista e “fascista”, erano il prodromo, per certi versi contraddittorio, all’avvento della “rivoluzione”, fosse questa intesa come un ribaltamento dei rapporti di proprietà o come uno scardinamento del mondo liberale e borghese in previsione della costruzione di una comunità organica. Si iniziò a leggere la tecnica come il segno, se non la causa, della decadenza morale dell’uomo che preludeva al crepuscolo del mondo occidentale o almeno alla sua inevitabile “Krisis”. E’ assai in generale questa la cornice storica e sociale all’interno della quale l’allora celebre scrittore di guerra e giornalista politico Ernst Jünger pubblica, nel 1932, il saggio filosofico e metapolitico Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt (1).

Nelle pagine che seguono cercherò, da un lato, di evidenziare la portata propriamente metafisica del saggio esaminando la metafisica delle forme che ne costituisce l’impianto; dall’altra, avrò modo di rilevare come Ernst Jünger ne L’operaio non abbia l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario, secondo i miei studi, egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo.

1. Forma e Tipo

Sfogliando L’operaio si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa. E’ utile a questo punto procedere alla illustrazione di quelli che mi sono sembrati i fondamenti metafisici del saggio del ’32.

Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo (2); la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti (3). Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario (4). L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente (5). Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino (6). Ma l’uomo può “avvicinarsi” (7) alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta (8).

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo deve, a mio avviso, essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma” (9).

La forma è più vicina all’Indistinto; il tipo, irradiazione della Forma, valicata l’individualità, spalanca le porte all’impersonalità. Questo discorso appare fin qui assai astratto. Per comprendere come effettivamente l’uomo, facendosi Tipo, possa rispecchiare totalmente la forma, è necessario riflettere sul linguaggio della manifestazione della forma. L’uomo infatti si fa tipo (forma nel tempo) praticando, in certo qual modo essendo, il linguaggio della forma. Divenendo tipo, e cioè qualcosa che supera gli esclusivi interessi della propria isolata individualità, si pro-pone al servizio dell’espansione totale della forma. Ora, a parere di Jünger, il linguaggio che la forma, tramite l’uomo, parla nell’epoca della “riproducibilità tecnica” (10) è naturalmente proprio quello della tecnica. Nel periodo de L’operaio la tecnica è un ingranaggio di questo sistema metafisico. Solamente tramite la tecnica infatti la forma può dominare in tutto il mondo. La tecnica è, in altri termini, il modo più efficace tramite cui la Forma può dominare totalmente.

2. L’elementare

Prima di procedere all’analisi del nesso che fonde inestricabilmente, nel pensiero di Jünger, la tecnica alla forma, è bene riflettere su un altro tema che è parimenti inserito nell’impianto metafisico di cui si discute. Mi riferisco alla nozione di “elementare” che, almeno in parte, costituisce uno degli argomenti più “attuali” del pensiero di Jünger (11). Ne L’operaio l’elementare è, da un certo punto di vista, una forza imperitura, sempre uguale a se stessa, ma imprevedibile, poco misurabile, refrattaria al calcolo della ragione strumentale, malamente oggettivizzabile; è dunque un’energia primordiale che non si riduce né all’uomo né alle sue leggi, morali o scientifiche che siano. L’elementare agisce sia come irrefrenabile forza naturale (inumana potenza dei quattro elementi naturali), sia nell’uomo come moto profondo dell’anima impossibile da ponderare, razionalizzare, cattivizzare. Secondo Jünger l’energia del cosmo è sempre uguale a se stessa. Risulta allora perfettamente inutile, anzi assai pericoloso, relegare nell’irrazionale le energie elementari che, in un modo o nell’altro, necessariamente troveranno una valvola di sfogo. Più vengono contratte, più aumenta la loro carica esplosiva, dirompente, agli occhi dell’uomo, terribile. Il borghese porterebbe avanti proprio questo tentativo: piegherebbe l’elementare all’assurdo o, al massimo, all’eccezione che conferma la regola della razionalizzabilità del tutto. A parere del borghese tutto ciò che non può essere ricondotto alla ragione strumentale e alla morale utilitaria deve essere per forza assurdo, dunque irrazionale; l’elementare è così, nell’ottica dell’uomo moderno, destinato ad essere s-piegato, calcolato. Il motivo di questa operazione matematica (12) è per Jünger essenzialmente uno: la paura. L’uomo moderno ha infatti come fine la sicurezza che, insieme alla comodità e all’aponia, vede come il presupposto della sua felicità. L’elementare introduce l’uomo nello spazio del pericolo e dunque lo apre all’esperienza inspiegabile, ma endemica all’umano, del Dolore (13). Crea così le premesse per lo sconvolgimento dell’ordine morale e sociale mettendo a repentaglio la sicurezza che, come si è detto, sarebbe il valore più caro all’uomo borghese. La contraddizione, la sofferenza, la violenza, ma anche la temerarietà, l’entusiamo eroico, fanno parte del sottobosco a cui l’elementare, secondo Jünger, dischiude l’animo umano. Il borghese crede che grazie al progresso, anche tecnico, la società umana possa un giorno pervenire alla costruzione di un paradiso terrestre in cui l’uomo universale, dotato di diritti inalienabili, possa essere rispettato in quanto tale; un paradiso terrestre da dove possa essere bandito il pericolo, il dolore. Jünger contesta l’equazione razionalità-borghese=razionalità. Quella borghese è infatti, ai suoi occhi, una forma di razionalità che strumentalizza ogni fenomeno alla sicurezza e alla comodità dell’uomo. Una forma di ragione che, dopo averlo oggettivizzato, fa di ogni ente un mezzo per raggiungere una forma di felicità terrena che risulterebbe riduttiva, poco appropriata alla grandezza destinale che l’uomo in passato sarebbe stato in grado di incarnare. Nel sistema jüngeriano l’elementare riveste quasi la funzione che in una macchina ha il carburante. E’ infatti l’energia del sistema, è una forza tellurica e immortale che agisce in sintonia con la Forma facendola muovere nello spazio, cioè consentendole di essere nel tempo. Ritornando allo schema generale: così come il tipo permette alla forma di esistere nello spazio, l’elementare permette alla forma di muoversi in esso e dunque, in virtù del legame che tradizionalmente stringe lo spazio col tempo, di essere tempo, cioè fenomeno, evento, Destino. L’Operaio sarebbe capace di scorgere l’elementare nella sua “realtà” senza giudicarlo e “castrarlo”. Non lo relega all’assurdo, ma cerca di amplificarne le potenzialità in vista del Dominio della Forma. Il modo più appropriato che questo eone della Forma ha per liberare la potenza di cui la Forma abbisogna è la tecnica. La tecnica, come è stato accennato e come verrà ribadito, non solo è il tramite che trasforma l’uomo in tipo, ma permette all’elementare di manifestarsi in tutto il suo vigore. La tecnica è dunque rigorosamente innestata nella metafisica elaborata da Jünger, essa appare, ne L’Operaio, come un suo meccanismo imprescindibile (14).

3. La tecnica

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo” (15). L’Operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’Operaio (16). Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”, Alain De Benoist aggiunge, “alla guerra” (17). Mobilitare può significare essenzialmente rendere qualcosa disponibile per qualcos’altro: la mobilitazione del mondo appresta il mondo alla conquista totale della Forma del Lavoro. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità (19).

Perché lo strumento tecnico possa essere ad-operato dall’uomo, è necessario che questi faccia propria precisamente la razionalità strumentale. Se infatti l’uomo adotta la tecnica come strumento, non ha bisogno di mettere in gioco tutte quelle qualità che lo distinguono dagli altri uomini. Secondo una tradizione di pensiero che si impone già prima di Jünger (Sorel, Spengler, Ortega, Guénon) e che, dopo L’operaio, prosegue, seppur all’interno di concezioni filosofiche assai differenti, tramite Heidegger, Adorno, Arendt e molti altri, il mezzo tecnico (e la conoscenza come dominio) richiede esclusivamente la capacità meccanica e la razionalità sufficiente a farlo funzionare. Il funzionamento dello strumento sembra il fine del processo tecnico. L’uomo stesso appare come un ingranaggio finalizzato al funzionamento del mezzo che, alla stregua di un circolo vizioso, ha come fine la mera funzionalità. Capiamo così come, all’improvviso, l’uomo col suo retaggio di esperienze personali, qualità irripetibili, particolarità, ma anche “razza” (20), differenza etnica, conti poco. E’ invece importante l’esercizio della ragione che, prendendo in prestito la terminologia di Heidegger, definiamo “rappresentativa”. Il Tipo ergendosi a fondamento, a misura del mondo, pone il mondo medesimo davanti a sé come un oggetto. Il mondo è in quanto può essere misurato, forzato al metro umano. Il mondo è, ha valore (è valore, “immagine”) in quanto è strumentale al dominio del Tipo. Conoscere significa dunque misurare, cioè matematicizzare, pre-vedere, mobilitare, indirizzare al dominio (21). Il metro di valutazione del mondo è l’oggettivazione dello stesso ai fini della sua utilizzazione e la conoscenza in quanto tale, laddove si fa tecnica, è dominio. Questo processo è talmente radicale che, a un certo momento, pare che la tecnica come strumento, da mezzo si tramuti in fine e che, dunque, il fine del mobilitare sia strumentalizzare e utilizzare il mondo in vista del dominio. Il fine del mobilitare sembra il mobilitare (22). Il mezzo dell’uomo piega a sé l’uomo.

L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.

La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo” (23). L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita (24). Si riduce lo spazio che divide i sessi e quello che divide il lavoro in senso proprio dall’ozio; anche lo sport diventa lavoro; ogni cosa tende ad assumere una forma tipica e incarna lo stesso severo, freddo, ascetico stile. Farsi tipo tramite la tecnica significa dunque attualizzare tutta una serie di proprietà che rendono l’uomo adeguato al dominio della forma. Il dominio della forma nel tempo attuale si appaleserebbe così tramite segni inequivocabili che sono una conseguenza diretta dell’uso della tecnica e della mentalità che tale uso esige. Si fa strada una “rigidita’ da maschera” nel volto rasato del soldato, nella sua espressione glaciale e precisa, che non tradisce una differenza psicologica né alcun umano sentimento, ma che mostra una volontà oggettiva, impersonale, automatica, meccanica. L’uniforme fa la sua comparsa in ogni ambito della vita, gli operai assomigliano così ai soldati e i soldati sono operai. La cifra acquista la sua imprescindibile importanza in ogni settore dell’organizzazione statale, si fa strada l’anonimato, la ripetizione (che sostituisce la borghese irripetibilità, eccezionalità), garantisce la sostituibilità di un operaio con un altro. La quantità prevale sulla qualità.

Fin qui pare di leggere una critica alla tecnica e alla ragione che potremmo trovare in molti altri autori in quel tempo (25). Ma Jünger sembra essere originale proprio in quanto, dopo aver individuato le trasformazioni che la tecnica produce sull’uomo, non cede alla tentazione di condannare i mutamenti epocali di cui si è detto. Che l’uomo pensi di poter restare indenne da questi processi totali è infatti, a suo avviso, un’illusione. Egli, che si voglia o no, ne è mutato profondamente. Questa tras-figurazione distrugge negativamente l’individuo borghese; l’Operaio invece, consapevole della necessità dei processi in atto, sacrifica eroicamente i propri desideri contingenti e, nel Lavoro, considerato alla stregua di una missione rivoluzionaria, perviene alla coscienza di partecipare al Destino della Forma assurgendo a vessillo, “geroglifico” del suo totale Dominio. L’essenza della tecnica dunque, come dirà Heidegger, non sarebbe nulla di tecnico ma di nichilistico (26). Essa demolisce ogni vincolo e ogni consuetudinaria misura in quanto costringe ogni ente al suo utilizzo. Le cose perderebbero così il valore armonico, tradizionale, sacrale, cultuale che avevano e diventerebbero oggetti da dominare e da utilizzare facilmente e velocemente. Il fatto che il mobilitare appaia come un mezzo finalizzato al medesimo e cieco mobilitare, è appunto una apparenza che s-vela l’alto livello a cui la tecnica approda nella sua opera di conquista totale. In verità, il mobilitare finalizzato al mobilitare è, nel pensiero che si analizza, esattamente l’”astuto” modo che la Forma attualmente adotta per raggiungere il proprio Dominio. Il protagonista del mobilitare, il suo fine, non è infatti, contrariamente alle apparenze, in ultima istanza, il mobilitare, ma la vittoria totale della nuova Forma. Per questo Jünger distingue chiaramente tra fase dinamico-esplosiva (“paesaggio da officina”) e Dominio della Forma dell’Operaio. La prima è necessaria al secondo, ma il secondo conclude, nel suo compiersi, la fase “anarchica” in cui il mobilitare si esprime in modo tanto potente da ingenerare la credenza che il suo fine sia solo e soltanto la propria cieca, distruttiva e totale manifestazione (27). In questo processo totale, antikantianamente (28), l’uomo scoprirebbe la sua dignità, o, facendo nostro un gergo appropriato allo spirito del tempo in cui Jünger scrive, il suo “onore”, proprio nel trasformarsi in mezzo della manifestazione della forma. La tecnica è così esaltata precisamente perché tras-forma l’uomo da fine isolato a mezzo organico. L’Operaio risulta, nello spirito e nel corpo, glorificato, per così dire, alchemicamente risorto nella Forma.

4. Metapolitica

Questa analisi ci permette di planare dall’orizzonte metafisico a quello metapolitico. Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società (29).

L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti (30). Essi ambivano ad una distruzione da cui potesse originarsi un nuovo gerarchico Ordine e una nuova forma di partecipazione politica. La stessa nozione di forma come qualcosa che non si riduce alla somma delle sue parti, trova riscontro in una comunità politica che non esaurisce la sua essenza nell’addizione dei singoli che la costituiscono. La comunità organica, come la forma, è altro dalle sue parti, è “un altro che si aggiunge”, un di più a cui non si arriva tramite la mera somma di vari elementi. Così l’agire, il pensare e il sentire degli individui non sarebbero in questo contesto finalizzati al possesso della felicità personale, ma al “bene”, alla potenza della comunità che trascende la somma.

Al tempo de L’Operaio la distruzione bellica, grazie alla tecnologia, assunse un livello mai raggiunto fino a quel momento, le lotte sociali si fecero, a causa della misera condizione della classe operaia, ma anche in virtù della diffusione della ideologia marxista, dell’avanzata dei partiti socialisti e dei sindacati, proporzionali all’industrializzazione e alla mobilitazione dei materiali (umani e non) in vista del dominio delle nazioni più sviluppate. Nel dopoguerra, specialmente a causa dell’inflazione e della fortissima svalutazione della moneta, buona parte della classe media perse ogni sua sicurezza e si produssero licenziamenti a catena nelle fabbriche; vari movimenti di destra e di sinistra e altri che si collocavano esplicitamente al di là di questi due cartelli ideali, ottennero così il favore della popolazione stremata dalla crisi economica. Se a ciò si aggiunge la polemica nazionalista contro i firmatari della pesante e probabilmente iniqua pace di Versailles, si capisce come il clima politico e sociale fosse confacente all’avanzata di partiti “radicali” che vedevano nella classe liberale al potere la responsabile dello sfacelo economico e politico della Germania. In un orizzonte in cui il “nuovo nazionalismo”, a cui Jünger aderisce già a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, otteneva sempre più consensi, la metafisica delle Forme avrebbe potuto dunque acquistare un significato morale-politico: il superamento del concetto di individuo, negli intenti di Jünger, avrebbe potuto condurre alla creazione di un “Uomo nuovo” che fosse pronto a donare la propria vita e ad immolare i propri desideri per la potenza dello stato organico, per il risanamento totale “patria umiliata”. Nel pantano ideologico della Repubblica di Weimar questa metafisica politica poteva dunque servire, agli occhi del pensatore, a costruire un’etica che ponesse l’uomo in grado di salvarsi, anche a costo di profondi sacrifici personali, dalla grave crisi in cui versava buona parte delle nazioni europee in quel tempo. Il modernismo reazionario, di cui Jünger è “l’idealtipo” (31), ha un preciso fine politico che è chiaro al pensatore tedesco ben prima della stesura de L’operaio: “Chi potrebbe contestare che la Zivilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che nelle grandi città essa è in grado di parlare la sua lingua naturale e sa utilizzare mezzi e concetti nei cui confronti la Kultur è indifferente o addirittura ostile? La Kultur non si lascia sfruttare a scopi propagandistici, e un atteggiamento che cerchi di piegarla in questo senso non può che esserle estraneo (…)” (32). Jünger crede che il “cupo ardore” che spinse migliaia di giovani ad andare in guerra gridando “per la Germania” offerto ad una nazione “inesplicabile e invisibile”, per quanto fosse bastato a far “tremare i popoli fino all’ultima fibra”, non potesse essere sufficiente per sconfiggere nazioni come quella statunitense che si erano rese disponibili alla mobilitazione totale di tutte le loro energie. Da qui la domanda retorica e assai significativa: “E se soltanto (il cupo ardore di cui si è detto) avesse avuto fin dal primo momento una direzione, una coscienza, una forma?” (33). Il fine politico de L’operaio può allora essere così inteso: creare le premesse metafisiche, dunque “kulturali”, ideali affinché l’ entusiasmo eroico potesse essere veramente efficace, cioè vincente. Jünger si è reso conto non solo del potere ineguagliabile degli strumenti tecnici applicati alla guerra, ma anche della necessità di trasformare la mentalità della nazione nella direzione della mobilitazione totale. Tale mobilitazione implica la fusione della vita col lavoro. Egli cioè pensa che solo se tutto diventa lavoro, tutto viene mobilitato alla potenza e dunque alla vittoria della Germania. Perché ciò accada è necessario che ogni cosa venga piegata allo strumento tecnico. La società diventa “lavoro” se prima è diventata macchina, tecnica. La Kultur tradizionalmente intesa non basta a questo che è chiaramente inteso come uno scopo epocale. C’è bisogno di una Zivilisation che non contraddica la Kultur ma che ne garantisca la vittoria reale. L’operaio ha l’obbiettivo eminentemente politico di sintetizzare la Kultur con la Zivilisation, in qualche modo di rendere culturale e politica la civilizzazione e di civilizzare, “modernizzare” la Kultur (34). Jünger contesta in maniera netta l’individualismo negli articoli scritti tra il 1918 e il 193335e, se si nota che L’operaio è del 1932, lo scritto può essere inteso in senso meramente apolitico molto difficilmente. Gli Operai, nel libro del ’32, sono uomini d’acciaio, incarnazione di un’etica oggettiva -realista-, che ha come fine il dominio della Forma del lavoro, e dunque il lavoro totale in ogni settore della produzione e dell’esistenza. L’individuo borghese che, in questa parabola di pensiero, ha come obbiettivo la comodità e la sicurezza, non sarebbe adatto a rappresentare senza rimpianti e con assoluto rigore un’etica che preveda la rinuncia alle proprie contingenti aspirazioni, alla propria esclusiva e “materiale” felicità. D’altra parte, non sarebbe adatto ad incarnare una simile etica neppure il “proletario” che si sente umiliato e combatte per migliorare le condizioni della sua classe e per ribaltare i rapporti di proprietà. Questi infatti lotta per gli interessi di una parte della nazione e ha un fine, che, dal punto di vista jüngeriano, resta sociale ed economico. L’Operaio invece, come si diceva, non bada al miglioramento della propria condizione economica, non ambisce ad impossessarsi dei mezzi di produzione né crede agli ideali di uguaglianza nei quali, seguendo la tradizione marxiana, il proletario dovrebbe credere. L’Operaio jüngeriano è al servizio della Forma e del suo Dominio; a questo servizio sacrifica ogni sua aspirazione, personale o di classe.

Secondo Jünger, si deve lavorare in primo luogo sullo spirito umano per poter ambire almeno ad una parziale rinascita. Il superamento dell’individualità è da Jünger perseguito tramite gli effetti distruttivi della tecnica che, in altri pensatori, sia di destra che di sinistra, sono abborriti in ogni senso. Jünger, nel periodo de L’operaio, ritiene puerili e dannose le tesi di chi pensa che la tecnica sia di per sé uno strumento del Male, qualcosa rispetto a cui l’uomo si sarebbe posto come un inesperto “apprendista stregone” che non è più in grado di controllare le dinamiche innescate dai suoi esperimenti (36) e, allo stesso modo, non ritiene che l’uomo possa divenire buono, giusto e dunque felice. In ogni quadro epocale domina un tipo di Forma che impregna tutto di sé; ogni cosa in un dato ciclo ha lo stile della forma che domina. Il ciclo sorge in quel periodo definito Interregno (37). L’Interregno è nietzscheanamente quel torno temporale in cui i vecchi valori non sono ancora morti e quelli nuovi che scalpitano non hanno ancora conquistato lo spazio necessario al Dominio. Accade così che alla fine di un ciclo le vecchie forme e i valori fino a quel momento dominanti si svuotino pian piano dal loro interno. Che i valori si s-vuotino significa che perdono la loro essenza di valori; il valore è ciò intorno a cui e grazie a cui l’uomo costruisce il suo senso. Alla fine di un ciclo i valori sono ancora formalmente intatti, il loro involucro è integro, splendente; ma perdono di sostanza: non sono più in grado di orientare la vita dell’uomo, è come se il loro corpo fosse ancora monoliticamente visibile a tutti, ma stesse perdendo il proprio vigore, il proprio potere di movimentare l’uomo e con esso il mondo. E’ così che in questo vuoto assiologico ed ontologico si insinuano nuove forze che aprono lo spazio al dominio inarrestabile di nuove forme. In siffatta dinamica di s-vuotamento delle forme che coincide con un nuovo riempimento, opera la tecnica. La tecnica si insinua in ogni dove, nello spazio e nello spirito, inizialmente come uno strumento puro, assolutamente neutro, grazie a cui l’uomo può vivere più comodamente; attraverso cui ha sempre più l’illusione di esorcizzare, depotenziare il dolore e tramite cui, giorno dopo giorno, trasforma la propria vita. Più l’uomo si innamora del suo strumento, più viene risucchiato nei suoi ingranaggi oggettivizzanti di cui sopra si è detto. La tecnica secondo Ernst Jünger risulta pericolosa proprio là dove si ignora il suo potere necessariamente distruttivo. Risulta pericolosa se la si valuta superficialmente come uno strumento neutrale che l’uomo può con la sua ragione utilitaria piegare ai suoi interessi e alla sua oggettiva felicità restandone essenzialmente immune. Ma risulta pericolosa anche là dove si tenti di negarla rifugiandosi in anacronistici sentimenti romantici. In altri termini, agli occhi dello Jünger del 1932, la tecnica è positiva solo se si è consapevoli del fatidico ruolo metafisico che riveste, se si accetta di intraprendere attraverso il suo utilizzo un percorso e-sistenziale che conduca al superamento dell’io, e se, quasi come si trattasse di una catarsi ontologica, attraverso questo superamento ci si renda poveri contenitori della Forma e del suo fatale Dominio.

Note

1 Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt appare nell’ottobre del 1932 presso Hanseatische Verlagsanstalt (Hamburg). Nello stesso anno si hanno tre nuove edizioni del saggio. Dopo la guerra, Heidegger convince Jünger a ripubblicare il saggio che infatti compare nel sesto volume delle sue opere uscite presso Klett-Cotta a Stoccarda. L’opera è tradotta in italiano solo nel 1984 da Quirino Principe (L’operaio, trad. it., Longanesi, Milano 1984.) dopo che, agli inizi degli anni ’60, Julius Evola la fece conoscere nel riassunto analitico intitolato L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961. Delio Cantimori preferì tradurre la parola Der Arbeiter con “milite del lavoro” per sottolineare il carattere guerriero della nuova figura (Cfr., Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Delio Cantimori, Tre saggi su Ernst Jünger, Moller van den Brück, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 17-43.).

2 Qualora le forme, nel loro aspetto fenomenico, non fossero soggette all’annientamento, non si potrebbe agevolmente spiegare la differenza fra un ciclo caratterizzato dal dominio di alcune forme e un altro contraddistinto da forme diverse. Ci fossero sempre le stesse forme cosa muterebbe all’alba di un nuovo ciclo? La valorizzazione di questa dottrina tradizionale giustifica insieme ad altre importanti somiglianze un parallelo fra la metafisica di Jünger e quella a cui si richiamano Evola, Guénon ed in parte Eliade. In particolare, risulta interessante un confronto fra i segni che secondo questi autori caratterizzano il Kali Yuga (L’età Oscura, l’ultima età prima della fine di questo ciclo cosmico) e i segni che, ne L’operaio e in altre opere di Jünger, contraddistinguono l’“Interregno” in cui sorge ed agisce la Forma dell’Operaio. In questo senso, è assolutamente importante anche un paragone con Spengler per il quale si rimanda a: Domenico Conte, Jünger, Spengler e la storia, in A.A. V.V., in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di Luisa Bonesio, Herrenhaus, 2002, pp. 153-198; Luciano Arcella, Ernst Jünger, Oltre la storia, in Due volte la cometa, Atti del convegno Roma 28 ottobre 1995, Settimo Sigillo, Roma 1998. Antonio Gnoli e Franco Volpi, I prossimi titani, Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 103, 104. Si veda anche Julius Evola, Spengler e il Tramonto dell’Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1981. Sulla interpretazione jüngeriana del pensiero di Spengler si legga soprattutto: Ernst Jünger, trad. it., Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000.

3 “Nella forma è racchiuso il tutto che comprende più che non la somma delle proprie parti”. Ernst Jünger, trad. it., L’Operaio, Dominio e Forma, Guanda, Parma 2004, p. 32. “Una parte è certamente così lontana dall’essere una forma così come una forma è lontana dall’essere una somma di parti”. Ibidem.

4 Jünger definisce la storia dell’evoluzione come “il commento dinamico” della forma. Cfr., Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 75. La forma dunque “non esclude l’evoluzione”, la “include come proiezione sul piano della realtà”. Ivi, p. 125. Ciò implica l’avversione non solo alla dottrina del progresso (“ogni progresso implica un regresso”), ma il rifiuto netto di ogni prospettiva storicistica: “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma”, ivi. p. 75. Evola commenta: “Le figure non sono storicamente condizionate; invece sono esse a condizionare la storia, la quale è la scena del loro manifestarsi, del loro succedersi, del loro incontrarsi e lottare (…). E’ l’apparire di una nuova figura a dare ad ogni civiltà la sua impronta. Le figure non divengono, non si evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa e di effetto”. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 32. Si potrebbe allora sostenere con Eliade che la “valorizzazione” dell’esistenza umana non è “quella che cercano di dare certe correnti filosofiche posthegeliane, soprattutto il marxismo, lo storicismo e l’esistenzialismo, in seguito alla scoperta dell’ “uomo storico”, dell’uomo che si fa da se stesso in seno alla storia”. Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma 1999, p. 8. Questa impostazione è molto simile a quella jüngeriana, infatti l’Operaio come Gestalt non può essere considerato un prodotto delle dinamiche storico-economiche. E’ la Forma a fare la storia, non viceversa.

5 Usando il linguaggio heideggeriano si può sostenere che la forma non può essere piegata alla scienza intesa come “ricerca”: “La scienza diviene ricerca quando si ripone l’essere dell’ente” nell’ “oggettività”. Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 83. La Forma non può essere oggettivizzata, non se ne può fornire una storia dettagliata né, tantomeno, se ne può calcolare in anticipo e con esattezza il corso futuro.

6 Plotino distingue l’essere che è costituito da forme sensibili e intelligibili dall’Uno che può essere considerato amorfo: “L’Uno non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede (…) una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Plotino, Enneade VI, in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, p. 1343. L’Uno “privo di forma” non può essere conosciuto “né per mezzo della scienza né per mezzo del pensiero”. Chi estaticamente ha “visto” o meglio è “stato” (è) l’Uno “non immagina una dualità, ma già diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui”. L’Uno non può essere oggettivizzato. L’oggettivazione si fonda infatti sulla distanza e sulla differenza tra il soggetto che oggettiviza e l’ente oggettivizzato. Qualora ci fosse la distanza tra chi contempla l’Uno e l’Uno, quest’ultimo non si potrebbe cogliere come tale ma come “un altro”. Contemplare l’Uno significa farsi riempire dall’Uno, essere Uno. Stabilito ciò, si capisce come l’esperienza dell’Uno non possa essere adeguatamente raccontata. Manca infatti l’oggetto da ricordare. Ne L’operaio la tecnica è il modo attraverso cui l’uomo, superando la propria differenza, si avvicina a rappresentare la Forma che lo trascende.

7 Il concetto di “Avvicinamento” che scopriamo nel saggio del 1963 Tipo Nome Forma viene ripreso nello scritto del 1970 Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza: “L’avvicinamento è tutto, e questo avvicinamento, non ha uno scopo tangibile, uno scopo cui si possa dare un nome, il senso risiede nel cammino”. Ernst Jünger, Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza, Guanda, Parma 2006, p. 53.

8 “(…) nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo ed impronta, ed è una regola di tutt’altra natura”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 31.

9 “Il predicare della natura (…) muove dall’oggetto (il giglio indicato), attraverso il tipo (il giglio nominato), alla forma e infine all’indistinto”. Le risposte divengono sempre più ampie e, nel contempo, si riducono le distinzioni. Questa riduzione è il segno dell’avvicinamento all’Indistinto”. Ernst Jünger, Tipo, Nome, Forma, trad. it., Herrenhaus, 2001, p.93.

10 La perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è un elemento che Benjamin giudica, al contrario di Adorno e di Horkheimer, funzionale alla possibilità di una rivoluzione sociale. Paradossalmente Jünger, che da Benjamin è stato aspramente criticato in relazione al suo scritto Die Totale Mobilmachung, nella dura recensione Teorie del fascismo tedesco, ritiene anch’egli fatale il sacrificio dell’autenticità dell’arte a favore del suo “uso” rivoluzionario. Naturalmente le prospettive sono opposte in quanto, alla stregua di Lukács (cfr. György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 538.), gli “incatesimi runici” di Jünger sarebbero, secondo Benjamin, tesi al rafforzamento di una “classe di dominatori” che “non deve rendere conto a nessuno e meno che mai a se stessa, che, issata su un altissimo trono, ha i tratti sfingei del produttore, che promette di diventare prestissimo l’unico consumatore delle sue merci”. Walter Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in id., Benjamin, Critiche e recensioni, Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 159. Dunque, la rivoluzione di Jünger e dei suoi sodali nazional-rivoluzionari, sarebbe tesa “ideologicamente” a rafforzare lo status quo, cioè lo stato liberalcapitalista e i privilegi dei “padroni”. Secondo i miei studi, Ernst Jünger non critica falsamente (“ideologicamente”) la classe borghese per amplificarne paradossalmente il potere. Egli non ha il fine di favorire lo status quo. Nel corso dell’articolo avrò modo di ribadire come le posizioni di Jünger sono equidistanti sia dal materialismo collettivista sia dall’utilitarismo borghese.

11 Secondo Daniele Lazzari: “Siamo stati persuasi da quasi tre secoli di illuminismo che il pensiero moderno avrebbe piegato le forze elementari ormai scientificamente conosciute, analizzate ed “ingabbiate” dal razionalismo dell’umana specie, ma in barba a queste riflessioni, all’osservatore più attento non può sfuggire il persistere, se non l’accentuarsi, di queste forze elementari. Tra queste la Natura, mai dimentica di sé e della sua eterna potenza non perde occasione di ricordarci la sua grandezza, la sua inarrestabile forza distruttrice con le grandi alluvioni, trombe d’aria e vulcaniche eruzioni”. Daniele Lazzari, Il Signore della Tecnica, in A.A. V.V., Ernst Jünger, L’Europa, cioè il coraggio, Società Editrice Barbarossa, Milano 2003, p. 162.

12 Heidegger ricorda che “Τά μαθήματα significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”. Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id., Sentieri interrotti, cit., p. 74. La scienza come matematica determina “in anticipo e in modo precipuo qualcosa di già conosciuto”. Ivi, p. 75. Questo processo che implica la pre-conoscenza di ciò che si conosce e dunque la pre-visione, è il modo tipico attraverso cui, anche per Jünger, l’uomo moderno conosce, calcola e domina il mondo. La verità del mondo sta nella sua esattezza, cioè nella corrispondenza rigorosa col procedimento che si adotta per conoscerlo. Questo modo di conoscere è valido massimamente per la tecnica. La forma tramite la tecnica e la scienza come matematica calcolano e dominano il mondo. Ma, nel pensiero di Jünger, la Forma in se stessa non può certo essere a sua volta misurata, pre-determinanta. La sua verità non è l’esattezza.

13 All’argomento del dolore che, come si sta ricordando, è intrinsecamente legato il tema dell’elementare, e che non è possibile affrontare in tutta la sua ampiezza in questo articolo, Jünger dedica un complesso e profondo saggio nel 1934 in cui si legge: “Là dove si fa risparmio di dolore l’equilibrio verrà ristabilito secondo leggi di un’economia rigorosa, e parafrasando una formula celebre, si potrebbe parlare di una “astuzia del dolore” volta a raggiungere in qualsiasi modo lo scopo”. Ernst Jünger, Sul Dolore, in id. Foglie e Pietre, cit., p. 149.

14 La revisione della tematica della tecnica, che comunque non mi pare possa intaccare nella sostanza i fondamenti della metafisica delle forme, è un argomento molto complesso a cui sarebbe bene dedicare un apposito studio all’interno del quale si analizzino nello specifico almeno i saggi Oltre la linea (trad. it., Adelphi, Milano 1989), Il trattato del Ribelle (trad. it., Adelphi, Milano 1995), Al muro del tempo ( trd. it., Adelphi, Milano 2000), il romanzo filosofico Eumeswil (trad. it., Guanda, Parma 2001) e La forbice (trad. it., Guanda, Parma, 1996). Ne L’operaio, che è l’oggetto di questo articolo, Jünger pensa che l’omonima Figura possa finalizzare alla Rinascita dell’uomo totale l’elementare; la tecnica è dunque vista come lo strumento necessario che l’uomo adotta per disporsi alla Trascendenza della Forma. Successivamente questo strumento, a cui già nel ’32 era stata associata una trasformazione della libertà, non è più adatto a garantire la comunicazione tra la Forma e l’uomo. Da qui l’esigenza di elaborare nuove figure come appunto quella del Ribelle (in Il trattato del Ribelle) o dell’Anarca (in Eumeswil) che arrivano alla propria libertà sovratemporale tramite percorsi individuali.

15 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

16 Cfr. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, trad. it., in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, trad. it., Adelphi, Milano 1989, pp. 130, 131.

17 Cfr., Alain de Benoist, L’operaio fra gli dei e i titani, cit., p. 40.

18 Benjamin identifica con precisione il nesso tra la guerra e la tecnica specialmente riferendosi all’estetizzazione della politica che perseguirebbe il fascismo. La guerra imperialistica sarebbe lo sbocco naturale della società capitalista a causa “della discrepanza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione (in altre parole, dalla disoccupazione e dalla mancanza di mercati di sbocco)”. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 46, 47. E’ probabile (anche se non necessario) che la Mobilitazione Totale così come è stata elaborata da Jünger possa sfociare nella guerra. E’ anche vero che i Rivoluzionari-conservatori non contestano la società a partire da idee economiche e che i rapporti di proprietà non costiuiscono il fulcro principale della loro riflessione. E’ infatti lo stesso Operaio “a rifiutare ogni interpretazione che tenti” di spiegarlo “come una manifestazione economica, o addirittura come il prodotto di processi economici, il che significa in fondo, una sorta di prodotto industriale”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 29. L’Operaio pronuncia una “dichiarazioone d’indipendenza dal mondo dell’economia”, anche se “ciò non significa affatto una rinuncia a quel mondo, bensì la volontà di subordinarlo ad una rivendicazione di potere più vasta e di più ampio respiro. Ciò significa che non la libertà economica né la potenza economica è il perno della rivolta, ma la forza pura e semplice, in assoluto”. Ibidem.

19 Secondo Evola il “mondo senz’anima delle macchine, della tecnica e delle metropoli moderne”, “pura realtà e oggettività”, “freddo, inumano, distaccato, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, “barbarico””, non è rifiutato dall’Uomo differenziato. Infatti, “proprio accettando in pieno questa realtà (…) l’uomo differenziato può essenzializzarsi e formarsi (…) attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità, egli può enucleare la persona assoluta”. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, pp. 103, 104. Rispetto al complesso rapporto fra Jünger ed Evola, oltre agli scritti evoliani L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger ( Armando, Roma 1961), Il cammino del Cinabro (Vanni Scheiwller, Milano 1963) e Cavalcare la Tigre, si legga Francesco Cassata, A destra del fascismo, profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

20 Ne L’operaio la caratteristica peculiare della tecnica consiste proprio nella sua capacità di modificare l’essenza dell’uomo verso l’uniformità. La tecnica, che è il più appropriato strumento di dominio dell’Operaio, frantuma ogni tradizione e ogni valore e dunque anche ogni differenza di carattere schiettamente biologico. Allo stesso modo, è vero che chi non avesse la capacità di sfruttare positivamente la distruzione tecnica, sarebbe, nell’ottica di Jünger, destinato alla massificazione amorfa, in altri termini ad una modalità di vita probabilmente inferiore rispetto a quella incarnata dall’Operaio. Solo quest’ultimo, esperita la distruzione di tutti i valori e consapevole della potenza inumana della tecnica, rinasce come eroe della Forma e come protagonista del suo destino di dominio.

21 Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 87. Secondo Heidegger, dopo che l’uomo è divenuto sub-jectum issandosi a fondamento dell’essere e dunque a metro della verità, sapere significa dominare. Heidegger confessa che il suo scritto del 1953 La questione della tecnica “deve alle descrizioni contenute nel Lavoratore un impulso durevole”. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 118. In effetti, sia la strumentalizzazione del mondo attuata dalla ragione tecnica che il nesso profondo che fonde il darsi della verità col suo nichilistico ritrarsi sono, almeno in parte, tematiche già presenti ne L’operaio. (Cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it., Mursia, Milano, 1976.). Adorno e Horkheimer, in La dialettica dell’illuminismo, scrivono che “l’illuminismo nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso”- cioè non solo come illuminismo del secolo XVIII- “ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”. Max Horkheimer, Theodor Adorno, trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 11. La tecnica è “l’essenza” del sapere come potere”. Ivi, p. 12. Jünger anticipa questa analisi sul sapere moderno che ha la tecnica e la razionalità strumentale come essenza. I pensatori della Scuola di Francoforte però tendono a non considerare in senso positivo il potere catartico della strumentalizzazione della ragione e del sapere come dominio. Secondo Jünger invece, una volta constatata l’irreversibilità delle dinamiche descritte, non resta che viverle. Né per Heidegger né per Jünger si può prescindere dall’essenza nichilistica della tecnica: è proprio esperendo il nichilismo che ci si incammina verso un suo eventuale superamento. Entrambi non condannano la tecnica in quanto ne giudicano necessario l’avvento. Sull’argomento cfr., Michela Nacci, Pensare la tecnica, un secolo di incomprensioni, Laterza, Bari 2000, p. 44.

22 Questo aspetto è stato acutamente evidenziato dal nazionalbolscevico Ernst Niekisch: “(…) La mobilitazione totale, di cui Jünger si fa banditore, è l’azione la quale raggiunge i propri estremi limiti, le punte più alte cui si possa attingere; essa pretende di porre tutto in marcia, non tollera più nulla in stato di riposo, donna, bambino, vegliardo che sia. Incita i lattanti ad arruolarsi, chiama le ragazze sotto le armi, dà fondo alle più segrete riserve; niente ne resta escluso, ogni angolo è frugato, l’ometto più mingherlino viene trascinato al fronte. E’ il bagordo più sfrenato in cui si butta il nichilismo, quando gli è diventato quasi inevitabile dover finalmente fissare il proprio volto”. Ernst Niekisch, Il regno dei demoni, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 117, 118. Niekisch descrive perfettamente la mobilitazione totale, ma tace sul fatto che, come più volte Jünger ripete, dietro al movimento si cela immobile la Forma.

23 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 115.

24 Il lavoro non è interpretato come un fenomeno meramente sociale ed economico, né si ha la minima intenzione di porsi dalla parte degli operai sfruttati, che lavorano troppo. Viceversa, si tenta di introdurre il lavoro come un ideale, si tratta del lavoro come forma dell’uomo e, in un certo qual modo, come forma del mondo. Il mondo e l’uomo mutano la loro forma grazie al lavoro inteso come la missione propria dell’epoca moderna.

25 Si sente l’influenza di Weber laddove si parla della ragione strumentale che finalizza ogni ente all’utile umano, al profitto e che favorisce il superamento disincantato di quella ascesi intramondana che era all’origine del capitalismo medesimo ( cfr., Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, pp. 239, 240.) Ma, fa notare molto precisamente Herf, se “la critica della tecnica era moneta corrente nella cultura di Weimar”, “Ernst Jünger si distingueva, poiché sembrava accogliere positivamente il processo di strumentalizzazione degli esseri umani. Era come se Weber avesse accolto con gioia la prospettiva della gabbia di ferro”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, Il Mulino, Bologna 1988, p. 150. Per Jünger invero il fatto che la razionalità finalizzata al profitto si espanda in ogni settore della vita e che il lavoro si propaghi in ogni ambiente, non impedisce che l’Operaio possa, in un certo senso, tornare ad incarnare un’etica ascetica in cui non sia tanto importante il godimento di ciò che viene prodotto, quanto la dedizione totale al lavoro, dunque anche alla produzione. Egli cerca di dividere la missione del lavoro, funzionale al dominio della forma e alla nascita dell’Operaio (che non è un mero consumatore delle merci che produce), dall’etica utilitarista, propria del borghese che produce per raggiungere il suo isolato utile e piacere.

26 “Essere e niente non si danno uno accanto all’altro, ma l’uno si adopera per l’altro, in una sorta di parentela di cui non abbiamo ancora pensato la pienezza essenziale”. Martin Heidegger, La questione dell’essere, in Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 157.

27 Ne L’Operaio, e in vari articoli che lo precedono (cfr., ad esempio, Ernst Jünger, “Nazionalismo” e nazionalismo, Das Tagebuch, 21 settembre 1929, in Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra 1919-1933, trad. it., Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005, p. 89.), Jünger loda alla stregua dei futuristi la velocità, la macchina, l’acciao, la violenza che genera distruzione, i paesaggi lunari e freddi tipici del mondo-officina, la guerra come fattore elementare attraverso cui poter esperire una nuova forma di esistenza rinvigorita dal pericolo e dalla morte. Il costante riferimento all’Ordine (all’Essere, all’Immobile) è stato invece interpretato come la differenza più profonda fra Jünger e i futuristi italiani. Secondo Fabio Vander ad esempio poiché “non può esservi calma dopo la tempesta della Krisis, se non come essere della tempesta ovvero essere del divenire, dialettica della differenza”, Jünger “deve rassegnarsi al “semplice dinamismo, attivismo”, deve considerarlo intranscendibile se rifiuta, come rifiuta, la prospettiva dialettica. Allora di fronte alla tragicità di Jünger, meglio il divertissement di Marinetti, che appunto della differenza assoluta non cercava trascendimento, salvezza”. Fabio Vander, L’estetizzazione della politica, Il fascismo come anti-Italia, Dedalo, Bari 2001, p. 55. Secondo Vander, Jünger, ma anche Heidegger, poiché restii ad accettare la dialettica della differenza, non sarebbero stati in grado di sintetizzare l’Essere col Divenire, mentre Marinetti, non avendoci neppure provato, sarebbe stato più coerente. Constatata nel pensiero di Jünger la presenza della nozione “forte” di Forma, ma considerata pure la complicata correlazione che fonde il sensibile al sovrasensibile, non mi sento di ridurre la metafisica delle forme a un fallito tentativo di coniugare l’Essere col Divenire.

28 “Agisci sempre in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre come un fine e mai soltanto come un mezzo”. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Laterza, Bari 1992, p. 111. Cesare Cases scrive che “l’etica di Jünger si direbbe l’opposto dell’etica kantiana: l’uomo non vi è concepito come valore in sé, ma come “simbolo”, come mezzo per raggiungere un determinato scopo, in cui si invera e che è in funzione di un’entità metafisica che si chiama volta per volta “idea”, “Forma”, “destino””. Casare Cases, La fredda impronta della Forma, Arte, fisica e metafisica nell’opera di Ernst Jünger, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 39.

29 “E’ l’immensa moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti attività, conseguente alla divisione del lavoro, che, nonostante la grande ineguaglianza nella proprietà, dà origine, in tutte le società evolute, a quell’universale benessere che si estende a raggiungere i ceti più bassi della popolazione. Si produce così una grande quantità di ogni bene, che ve n’è abbastanza da soddisfare l’infingardo e oppressivo sperpero del grande, al tempo stesso, da sopperire largamente ai bisogni dell’artigianto e del contadino. Ciascun uomo effettua una così grande quantità di quel lavoro che gli compete, che può anche produrre qualcosa per quelli che non lavorano affatto e, al tempo stesso, averne in tale quantità che gli è possibile, attraverso lo scambio di quanto gli rimane con i prodotti delle altre attività, di provvedersi di tutte le cose necessarie e utili di cui ha bisogno”. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1969, p. 14. Anche Jünger crede nella necessità della divisione del lavoro, dunque nella specializzazione e nel nesso che lega questi processi alla complessiva crescita economica della nazione. Non crede invece che il solo mercato, come fosse una “mano invisibile”, possa essere in grado di determinare la ricchezza della nazione e, in definitiva, il benessere complessivo del popolo.

30 L’avvicinamento della metafisica delle Forme alla metafisica della vita può essere pensato con cognizione di causa solo se accanto alle somiglianze si mettono in evidenza le profonde differenze. Fare alla stregua di Lukács della metafisica delle Forme un’enclave della filosofia della vita (cfr. György Lukács, trad. it., La distruzione della ragione, cit., p. 538.), può condurre a incasellare la prima nell’alveo dell’irrazionalismo e dunque può servire a ridurrre la complessa filosofia di Jünger a un sistema teso a criticare la ragione in quanto tale. Se Jünger concorda con filosofi come Simmel sull’importanza della vita intesa come un fiume da cui l’uomo trae i valori e in cui i valori fatalmente nel tempo sono riassorbiti, conferisce anche notevole importanza alla dimensione propriamente metafisica o meglio esattamente Trascendente. La Forma non è qualcosa che fuoriesce per caso dal divenire magmatico. Essa è eterna, immobile. Se non può essere paragonata all’idea platonica è solo perché, benché sia trascendente, la dinamica della sua e-sistenza si estrinseca come evento, ma l’essenza è e rimane atemporale. Questa atemporalità conferisce solidità all’impianto etico de L’Operaio. In questo senso, la riflessione di Jünger può essere avvicinata a quella dei pensatori della Tradizione, ad esempio ad Evola e a Guénon. Infatti questi studiosi, riproponendo la metafisica della “Tradizione”, sostengono che l’uomo, per agire in conformità al proprio destino, debba incarnare principi assoluti e trascendenti, impersonali. L’uomo della Tradizione abbandona i propri desideri, il proprio utile e persegue un’ attività sovraindividuale. La sua è un’ “azione senza desiderio”, un “agire senza agire”. (Cfr. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, cit., p. 68.). Anche l’Operaio agisce senza agire, nel senso che è Forma: non è lui ad agire, ma la Forma di cui è impronta. Da qui la preminenza in questo pensiero di concetti “forti” come quello di disciplina, di sacrificio, di eroismo. Il vitalismo mutuato da Nietzsche è dunque inquadrato in un sistema metafisico in cui valori tipicamente guerrieri, aristocratici, tradizionali trovano forza e, nell’intento di Jünger, imperitura conferma.

31 Michela Nacci, Pensare la tecnica, Un secolo di incomprensioni, cit., p. 61.

32 Ernst Jünger, La mobilitazione Totale, in id., Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 127.

33 Ibidem.

34 Herf fa presente che la prima guerra mondiale era stata per i rivoluzionari conservatori “il palcoscenico su cui si riconciliavano le dicotomie centrali della modernità tedesca: Kultur e Zivilisation, Gemeinschaft e Gesellschaft”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, cit., p. 130. Diversamente da Spengler e da altri “intellettuali di destra” vicini all’“antimodernismo völkisch, Jünger proponeva di assorbire la macchina e la stessa metropoli nella Kultur tedesca, anziché respingere entrambi come prodotti di forze estranee”. Ivi, p. 133.

35 Cfr., Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005.

36 “Si vorrebbe riconoscere all’uomo, a piacere, la qualità di creatore o di vittima di questa stessa tecnica. L’uomo appare qui o un apprendista stregone, il quale evoca forze i cui effetti egli non sa dominare, o il creatore di un progresso ininterrotto che corre incontro a paradisi artificiali”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

37 Armin Mohler fornisce una chiara spiegazione del contesto in cui sorge il concetto di “interregno”: “Attraverso la nuova esplosione di movimenti che si determina nel secolo XIX il Cristianesimo (…) si disgrega. Nella realtà politica, conformemente al principio di inerzia, continua ad esistere; tuttavia là dove si prendono le decisioni esso ha perso la sua posizione dominante e rimane, anche nelle sue tradizioni consolidate (Neotomismo e Teologia dialettica), solamente una forza tra le altre. Questo processo è accelerato ulteriormente dalla decomposizione dell’eredità del mondo antico, che aveva aiutato nel corso dei secoli il cristianesimo a raggiungere una forma propria. Gli elementi della realtà precedente sussistono ancora, ma, isolati e senza punti di riferimento, si muovono disordinatamente nello spazio. L’antica struttura dell’Occidente quale unità di mondo classico, cristianesimo e forze di nuovi popoli penetrati nella storia con le invasioni barbariche, è frantumata. Ci troviamo così in questo stato intermedio, in un “Interregnum”, da cui ogni espressione culturale è influenzata”. Armin Mohler, La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1919-1932, Una guida, cit., pp. 22, 23.

lundi, 10 janvier 2011

Drieu la Rochelle, poeta della decadenza

Drieu La Rochelle, poeta della decadenza

Pierre Drieu La RochelleVi sono scrittori che impersonano nella loro esistenza e nelle opere un’epoca intera con tutte le sue contraddizioni. Pierre Drieu La Rochelle è stato uno di questi enfants du siècle. E il fascino dei suoi romanzi è legato non solo alla loro efficacia letteraria, ma anche al fatto che lo scrittore francese è diventato il simbolo di una generazione, quella degli “anni ruggenti”, divisa fra una vita disordinata e la ricerca di un ordine personale e sociale. Personaggi e romanziere si sono identificati agli occhi dei lettori sino a perdere ogni distinzione. E così doveva avvenire perché tutta la sua narrativa è un lungo monologo autobiografico in cui fantasia e confessione si intrecciano inestricabilmente.

 Qualcuno lo ha definito il fratello di F.S. Fitzgerald, il poeta della decadenza, della disintegrazione di una civiltà. E la definizione è, in parte, esatta. Drieu infatti è fra gli scrittori francesi che hanno avvertito più tragicamente e intensamente la crisi dell’uomo occidentale. “Il suo spirito era abituato – ha scritto in un romanzo – a confrontare la vecchiezza di oggi, che si dibatte con scosse secche e nervose, alla giovinezza creatrice con le sue armonie calme e piene”.

Le sue opere letterarie più significative, come Drôle de voyage, Fuoco fatuo, Rêveuse bourgeoise, Gilles, sono tutte modulate su questo tema della decadenza. I personaggi ne sono partecipi e rivelano nelle loro vicende l’incapacità di avere rapporti costanti e normali con gli altri, donne, uomini e ambienti, in un’alternanza di desideri e delusioni, di decisioni e di rinnegamenti; spinti continuamente a fuggire, a evitare ogni legame per timore di dovere “scegliere”.

Le pagine più compiute della sua narrativa, in genere scostante come scostante era lo stesso scrittore, sono appunto quelle in cui Drieu esprime questa atmosfera di crisi attraverso un ritmo linguistico che passa da un periodare secco e duro a una prosa densa e contorta. Ma parlare in Drieu di un’unità e costanza stilistica sarebbe, a parer nostro, inesatto: per lui infatti lo stile era un puro strumento che doveva adattarsi alla materia che trattava. Mentre, per fare un esemio, Fuoco fatuo e La commedia di Charleroi sono costruiti in un linguaggio scabro ed essenziale, Drôle de voyage e la prima parte di Gilles, che descrivono invece una corruzione di sentimenti e un clima di disfacimento, sono modulati su un ritmo più contorto, denso, colmo di echi e di riferimenti. Ma il caso più significativo è quello di Rêveuse bourgeoise,dove l’autore, dovendo rievocare in chiave fantastica la storia della sua famiglia e l’ambiente della media borghesia durante la belle époque, adotta consapevolmente il linguaggio del naturalista.

Pierre Drieu La RochelleLa modernità di Drieu sta, a parer nostro, nella struttura costante di tutta la sua opera che, al di là delle differenze stilistiche sottolineate, fonde nel tessuto narrativo materiali di diversa estrazione, descrizioni di vicende, meditazioni interiori, annotazioni storiche e di costume, costruendo un vero e proprio tipo di “romanzo-saggio”. Ma, a differenza di altri narratori, Drieu descrive senza definire: tutta la sua narrativa manca cioè di corposità veristica, i personaggi non hanno volto, sono centri nervosi, temperamenti – o forse anime – e i loro rapporti non sono quasi mai visti direttamente, ma attraverso lo schermo dei loro riflessi emotivi.

Faremmo però un torto al romanziere francese se lo riducessimo a un puro descrittore della decadenza. La consapevolezza della decadenza non era per lui un alibi, una giustificazione per accomodarsi nella poltrona di un nichilismo senza speranza. In lui era viva l’esigenza di una rivolta per modificare una situazione personale e sociale che giudicava negativa. L’aveva già sperimentata durante la prima guerra mondiale, che gli ispirò il suo racconto più compiuto, quella Commedia di Charleroi, in cui i temi della guerra moderna come simbolo della decadenza, il desiderio di rivolta, l’eroismo e la paura si mescolano in un impasto linguistico di derivazione surrealista, spezzato, rotto, in cui passato e presente, azione e meditazione formano vari piani narrativi intrecciati fra di loro in una struttura armonica.

Questo bisogno però di una rivolta, invece di esprimersi, come sarebbe stato proprio per uno scrittore, in una ricerca e in un approfondimento interiore, lo spinse verso l’azione pubblica, nell’evasione dell’impegno politico attivo che si concluse, come si sa, nella sua adesione al fascismo e nel tragico suicidio. Ma – ed è bene sottolinearlo per comprendere appinero la sua personalità – negli ultimi anni lo scrittore francese stava maturando una meditazione che lo allontanava sempre di più, da un punto di vista psicologico, dalla politica, dagli aspetti più contingenti della storia, e lo portava a cercare certezze non condizionate dagli avvenimenti. L’ultimo Drieu, che fra l’altro ha scritto quella stupenda confessione che è Racconto segreto, viveva ormai orientato verso una prospettiva metafisica, nella lettura di San Paolo, dei Vangeli e dei testi sacri orientali.

Pol Vandromme ci offre in questo saggio un ritratto prevalentemente psicologico di Drieu nella sua epoca, molto importante per capire i temi fondamentali delle sue opere, e nello stesso tempo sottolinea i motivi originali di questo autore che ha anticipato, pur nei limiti della sua formazione culturale, non solo una certa letteratura dell’incomunicabilità del dopoguerra, ma anche una corrente letteraria francese, quella che è passata alla storia degli anni cinquanta come la scuola degli ussari e degli enfants tristes.

Presentazione di: Pol Vandromme, Pierre Drieu La Rochelle, Borla, Torino 1965, pp. 7-10

lundi, 03 janvier 2011

Gottfried Benn und sein Denken

Gottfried Benn und sein Denken

Bewährungsprobe des Nationalismus

Arno Bogenhausen

Ex: http://www.hier-und-jetzt-magazine.de/

benn.jpgEine neuerschienene Biographie des Dichterphilosophen gibt uns Anlaß, über das Verhältnis von nationalem Bekenntnis und geistigem Solitär nachzudenken. Gunnar Decker, der mit seiner Arbeit weit mehr bietet als Raddatz („Gottfried Benn, Leben – niederer Wahn“) und auch gegenüber Helmut Lethens gelungenem Werk („Der Sound der Väter“) einen Zugewinn erbringt, ist als Angehöriger des Jahrgangs 1965 eindeutiger Nachachtundsechziger, damit weniger befangen und im Blick getrübt als die Vorgänger. Bei ihm finden sich Unkorrektheiten wie die beiläufige Bemerkung: „Es gehört zur Natur der Politik, daß sie jeden, egal wie gearteten, Gedanken konstant unter Niveau verwirklicht.“ Dennoch sind auch für ihn Benns Berührungen mit dem Nationalsozialismus und die folgende „aristokratische Form der Emigration“ im Offizierskorps der Deutschen Wehrmacht ein Grund zu längerer Reflexion; allein drei der sechs Kapitel sind den Jahren des Dritten Reiches gewidmet.

Benns Hinwendung zum NS, die 1933 in Rundfunkreden, Aufsätzen und dem Amt des Vizepräsidenten der „Union nationaler Schriftsteller“ zum Ausdruck kam, ist unbestritten. Sie war nicht äußerer Anpassung geschuldet, sondern beruhte auf der Überzeugung, an einer historisch folgerichtigen Wende zu stehen. Der Verächter des Fortschrittsgedankens und jeder programmatischen Erniedrigung des Menschen hoffte, „daß ein letztes Mal im Nachklang ferner dorischer Welten Staat und Kunst zu einer großen, einander begeisternden Form fänden“ (Eberhard Straub). Am 23. 9. 1933 schrieb er einer Freundin in die Vereinigten Staaten, „daß ich und die Mehrzahl aller Deutschen … vor allem vollkommen sicher sind, daß es für Deutschland keine andere Möglichkeit gab. Das alles ist ja auch nur ein Anfang, die übrigen Länder werden folgen, es beginnt eine neue Welt; die Welt, in der Sie und ich jung waren und groß wurden, hat ausgespielt und ist zu Ende.“
Diese Haltung wird ihm bis heute zum Vorwurf gemacht. Es beginnt 1953 mit Peter de Mendelssohns Buch „Der Geist der Despotie“, in dem zugleich Hamsun und Jünger in Moralin getaucht werden. Sehr schön liest sich bei Decker, warum die Vorwürfe ihr Thema verfehlen: „Auf immerhin fast fünfzig Seiten wird Benns Versagen behandelt, das letztlich in seinem Unwillen gegen ein moralisches Schuldeingeständnis gründet. Das überzeugt den Leser nur halb, denn de Mendelssohn argumentiert fast ausschließlich moralisch – und da fühlt Benn sich immer am wenigsten gemeint. In diesem Buch klingt einem ein Ton entgegen, wie später bei den 68ern mit ihrer ebenso ekstatischen wie pauschalen Anklage der Vätergeneration. Oder auch – auf anderer Ebene – wie bei manchem DDR-Bürgerrechtler, dem die DDR abhanden gekommen ist und der darum aus seinem Bürgerrechtssinn eine Ikone macht, die er pflegt.“
Benn hat seinen zahllosen Interpreten, die nach Erklärungen suchten, ihre Arbeit kaum erleichtert. Tatsächlich sind weder gewundene Rechtfertigungsversuche noch tiefenpsychologische Studien, wie sie Theweleit betrieb, vonnöten, um das angeblich „Unverständliche“ zu deuten. Der Denker selbst hat 1950 in öffentlicher Ansprache eine ganz schlichte, in ihrer Einfachheit allen Theorienebel beiseite fegende Aussage getroffen: „Es war eine legale Regierung am Ruder; ihrer Aufforderung zur Mitarbeit sich entgegenzustellen, lag zunächst keine Veranlassung vor.“

Das eigentliche Problem liegt somit nicht in Benns Entscheidung, mit der er – auch unter Intellektuellen – nun wirklich nicht alleine stand, sondern in der Unfähigkeit der Verantwortlichen, mit ihr umzugehen. Klaus Mann stellte als inzwischen ausländischer Beobachter nicht ohne Befriedigung fest: „seine Angebote stießen auf taube bzw. halbtaube Ohren … Benn hört vor allem deshalb auf, Ende 1934, Faschist zu sein oder zu werden, weil es keine passende Funktion für ihn gibt im nationalsozialistischen Züchtungsstaat.“
Vom NS-Ärztebund, der diskriminierende Anordnungen erließ, über fanatische Zeitungsschreiber, die ihm ungenügende völkische Gesinnung attestierten, bis zu Funktionären, denen der Expressionismus insgesamt undeutsch vorkam, schlug ihm Ablehnung entgegen. Seine virile Unbefangenheit in sexuellen Angelegenheiten wurde ihm 1936 von einem Anonymus im „Schwarzen Korps“ verübelt: „er macht auch in Erotik, und wie er das macht, das befähigt ihn glatt zum Nachfolger jener, die man wegen ihrer widernatürlichen Schweinereien aus dem Hause jagte.“ Benn sah sich danach zu der ehrenwörtlichen Erklärung gezwungen, nicht homophil zu sein. Die Parteiamtliche Prüfungskommission zum Schutze des nationalsozialistischen Schrifttums hielt der Deutschen Verlags-Anstalt vor, „völlig überholte Arbeiten“ zu publizieren und übermittelte der Geheimen Staatspolizei, Gedichte Benns zeugten von „pathologischer Selbstbefleckung“, weshalb zu bedenken sei, „ob der Verleger nicht zur Rechenschaft gezogen werden soll“. Ein mit der „Säuberung“ der Kunst befaßter Maler-Autor warf ihm „Perversitäten“ vor, die an „Bordellgraphik und Obszönitätenmalerei“ erinnerten; es sei angebracht, seine Aufnahme in das Offizierskorps „rückgängig zu machen“. Boshafte Unterstellungen gipfelten darin, seinen Familiennamen auf das semitische „ben“ zurückzuführen und ihm eine jüdische Herkunft anzudichten. Lediglich seinem Fürsprecher Hanns Johst, der bei Himmler intervenierte, verdankte Benn, nicht mit weiterreichenden Maßnahmen überzogen zu werden.

Worum es hier geht, ist nicht die Beweinung eines „dunklen Kapitels deutscher Geschichte“. Benn selbst schrieb 1930 an Gertrud Hindemith: „Vergessen Sie nie, der menschliche Geist ist als Totschläger entstanden und als ein ungeheures Instrument der Rache, nicht als Phlegma der Demokraten, er galt dem Kampf gegen die Krokodile der Frühmeere und die Schuppentiere in den Höhlen – nicht als Puderquaste“. Die Agonalität des Lebens war ihm vertraut, und angesichts der Praxis heutiger Bürokratien, die mißliebige Geister einer durchaus größeren Drangsal überantworten, als sie ihm widerfuhr, soll auch nicht leichthin der Stab über eine „offene Diktatur“ gebrochen werden. Daß aber die einmalige Gelegenheit vertan wurde, eine Persönlichkeit dieses Grades für den neuen Staat zu gewinnen, war kaum verzeihlich. Jene Nationalsozialisten, die Benn schlechthin verwarfen, begaben sich – man muß es so hart sagen – auf das Niveau des Bolschewismus herab. In kleinbürgerlich-egalitären Horizonten und ideologisch miniaturisierten Maßstäben befangen, erkannten sie nicht, daß ihnen ein Großer gegenüberstand, dessen Werk – was immer man im einzelnen ablehnen mag – den Deutschen zur Ehre gereichte. (Dasselbe gilt für eine Reihe weiterer, die alles andere als vaterlandslose Gesellen waren, aber ins Abseits gerieten; man denke nur an George, Jünger, Niekisch, Schmitt und Spengler, von dem übrigens Benn schon 1946 schrieb, er „wäre heute genauso unerwünscht und schwarzbelistet wie er es bei den Nazis war“.)
Das traurige Bild, das der Nationalsozialismus in diesem Punkte abgab, wird besonders deutlich im Vergleich mit dem faschistischen Italien, das es verstand, die vitalen Impulse des Futurismus aufzunehmen und in seine vorbildliche Pluralität zu integrieren. Benn versuchte in mehreren Aufsätzen, die futuristische Idee auch den Berliner Staatsmännern schmackhaft zu machen. Als Marinetti, der Verfasser des Futuristischen Manifestes, in seiner Eigenschaft als Präsident des italienischen Schriftstellerverbandes Berlin besuchte und ihm zu Ehren ein Bankett gegeben wurde, hielt Benn in Vertretung für Hanns Johst die Laudatio. Doch sein Mühen blieb vergeblich. Unterlagen doch selbst die weit weniger buntscheckigen Expressionisten, um deren Bewertung zunächst noch ein innernationalsozialistischer Richtungsstreit tobte, den Dogmatikern des Volkstümlichen.
Nach der sog. „Niederschlagung des Röhm-Putsches“ schreibt Benn seinem Lebensfreund Friedrich Wilhelm Oelze: „Ein deutscher Traum, wieder einmal zu Ende.“ Später wird er die Gebrechen des nationalsozialistischen Staates so beschreiben: „Ein Volk will Weltpolitik machen, aber kann keinen Vertrag halten, kolonisieren, aber beherrscht keine Sprachen, Mittlerrollen übernehmen, aber faustisch suchend – jeder glaubt, er habe etwas zu sagen, aber keiner kann reden, – keine Distanz, keine Rhetorik, – elegante Erscheinungen nennen sie einen Fatzke, – überall setzen sie sich massiv ein, ihre Ansichten kommen mit dicken Hintern, – in keiner Society können sie sich einpassen, in jedem Club fielen sie auf“.
Dennoch schließt sich Benn nach 1945 nicht den Bewältigern an. Seine Rückschau bleibt auf wenige Anmerkungen beschränkt und verfällt zu keiner Zeit in Hyperbeln. „Der Nationalsozialismus liegt am Boden, ich schleife die Leiche Hektors nicht.“ Die von den Siegern geschaffene Nachkriegsordnung analysiert er nicht weniger beißend: „Ich spreche von unserem Kontinent und seinen Renovatoren, die überall schreiben, das Geheimnis des Wiederaufbaus beruhe auf ‚einer tiefen, innerlichen Änderung des Prinzips der menschlichen Persönlichkeit’ – kein Morgen ohne dieses Druckgewinsel! –, aber wo sich Ansätze für diese Änderung zeigen wollen, setzt ihre Ausrottungsmethodik ein: Schnüffeln im Privat- und Vorleben, Denunziation wegen Staatsgefährlichkeit … diese ganze bereits klassische Systematik der Bonzen-, Trottel- und Lizenzträgerideologie, der gegenüber die Scholastik hypermodern und die Hexenprozesse universalhistorisch wirken“.
Anwürfe seiner „jüngsten Vergangenheit“ wegen lassen ihn kalt. Einem denunzierenden Journalisten teilt er mit: „Über mich können Sie schreiben, daß ich Kommandant von Dachau war oder mit Stubenfliegen Geschlechtsverkehr ausübe, von mir werden Sie keine Entgegnung vernehmen“. Und entschuldigt hat er sich nie.

Völlig falsch wäre es, Benns Haltung gegenüber dem NS als die eines Linksstehenden begreifen zu wollen. Was ihn von parteiförmigen Nationalsozialisten unterschied, läßt sich in derselben Weise von seinem Verhältnis zu den linksgerichteten Elementen sagen: eine erhabene Position gegenüber geistiger Konfektionsware und ein Bestehen auf der ehernen Reinheit des Wortes, das nicht im trüben Redefluß der Gasse untergehen soll. Im Todesjahr schreibt er: „Im Anfang war das Wort und nicht das Geschwätz, und am Ende wird nicht die Propaganda sein, sondern wieder das Wort. Das Wort, das bindet und schließt, das Wort der Genesis, das die Feste absondert von den Nebeln und den Wassern, das Wort, das die Schöpfung trägt.“
Bereits 1929 erregte Max Hermann-Neiße mit einer Rezension in der linksgerichteten „Neuen Bücherschau“ Aufsehen, in der er Benn anläßlich des Erscheinens seiner „Gesammelten Prosa“ so charakterisierte: „Es gibt auch in dieser Zeit des vielseitigen, wandlungsfähigen Machers, des literarischen Lieferanten politischer Propagandamaterialien, des schnellfertigen Gebrauchspoeten, in ein paar seltenen Exemplaren das Beispiel des unabhängigen und überlegenen Welt-Dichters, des Schöpfers eines nicht umfangreichen, aber desto schwerer wiegenden Werkes, das mit keinem anderen zu verwechseln ist.“ In dieser Distanz zur politischen Reklame liege aber nicht – und dies ist der entscheidende Punkt – ein Mindermaß an Radikalität, sondern vielmehr eine Größe, die weit über das kleinliche Tagesgeschehen hinausgehe: „Er macht den Schwindel nicht mit. Den hurtige, auf billigen Erfolg versessene Schreiber dieser niveaulosen Epoche schuldig zu sein glauben, sich dümmer stellen, als sie sind, und mit biederer Miene volkstümlich zu reden, wenn einem der Schnabel ganz anders und viel komplizierter wuchs. Und bleibt mit einem Stil, der das Gegenteil von populär ist, zuverlässiger, weiter gehend und weiter wirkend Revolutionär, als die wohlfeilen, marktschreierischen Funktionäre und Salontiroler des Propagandabuntdrucks. Statt des gewohnten ‚kleinen Formats’ der Sekretäre eines politischen Geplänkels um Macht- und Krippenvorteile spricht hier ein Rebell des Geistes, ein Aufruhrphilosoph, der in Kulturkreisen denkt und mit Jahrhundertputschen rechnet.“ Hermann-Neißes Darstellung rief bei den Kollegen des Redaktionskollegiums, den KPD-Funktionären Kisch und Becher, Empörung hervor. Beide traten unter verbalen Kanonaden aus der Schriftleitung aus, womit sie nachträglich bewiesen, zu eben jenen zu gehören, die kritisiert worden waren.
Zu einem gleichartigen Vorfall kam es zwei Jahre später, als Benn eine Rede zum sechzigsten Geburtstag Heinrich Manns auf einem Bankett des Schutzverbandes Deutscher Schriftsteller hielt und wenig später einen Essay über den Literaten veröffentlichte. Obgleich er viel Lobenswertes an ihm fand, bewies er erneut seinen klaren Blick, indem er feststellte, „daß harmlose junge Leute bei ihm den Begriff des nützlichen Schriftstellers ausliehen, mit dem sie sich etwas Rouge auflegten, in dem sie ganz vergehen vor Opportunismus und Soziabilität. Beides, was für Verdunkelungen!“ Nun war es so weit: beginnend mit dem schriftstellernden Architekten Werner Hegemann wurde das Etikett des „Faschisten“ an Benns tadellosen Anzug geklebt.
Der so Entlarvte antwortete mit einem Artikel in der „Vossischen Zeitung“ und mokierte sich, ob es ein Verbrechen sei, den Dichter als Dichter und nicht als Politiker zu feiern. „Und wenn man das in Deutschland und auf einem Fest der schriftstellerischen Welt nicht mehr tun kann, ohne von den Kollektivliteraten in dieser ungemein dreisten Weise öffentlich angerempelt zu werden, so stehen wir allerdings in einer neuen Metternichperiode, aber in diesem Fall nicht von seiten der Reaktion, sondern von einer anderen Seite her.“
Noch Jahre später, als Benn im Reich schon auf verlorenem Posten stand, versäumten es marxistische Ideologen nicht, ihn zu attackieren. 1937 brachte Alfred Kurella, der es einmal zum DDR-Kulturfunktionär bringen sollte, im Emigrantenblatt „Das Wort“ seine „Entrüstung“ über Benn zum Ausdruck und stellte fest, der Expressionismus sei „Gräßlich Altes“ und führe „in den Faschismus“.
Benn hatte seine weltanschauliche Verortung schon im Januar 1933 auf den Punkt gebracht, als eine linkstotalitäre Phalanx unter Führung Franz Werfels in der Deutschen Akademie den Antrag stellte, man müsse gegen Paul Fechters „Dichtung der Deutschen“ mit einem Manifest vorgehen. (Decker hierzu: „Nimmt man heute Paul Fechters Buch zur Hand, schüttelt man erstaunt den Kopf … Das große Skandalon, den Haß, die Geistfeindschaft, den Rassismus, gegen die eine ganze Dichterakademie glaubte protestieren zu müssen, sucht man in dem Buch vergeblich.“) Damals schrieb Benn in einer eigenen Manifestation: „Wer es also unternimmt, den denkenden, den forschenden, den gestaltenden Geist von irgendeinem machtpolitisch beschränkenden Gesichtswinkel aus einzuengen, in dem werden wir unseren Gegner sehen. Wer es gar wagen sollte, sich offen zu solcher Gegnerschaft zu bekennen und Geisteswerte wie etwas Nebensächliches oder gar Unnützes abzutun, oder sie als reine Tendenzwerte den aufgebauschten und nebelhaften Begriffen der Nationalität, allerdings nicht weniger der Internationalität, unterzuordnen, dem werden wir geschlossen unsere Vorstellung von vaterländischer Gesinnung entgegensetzen, die davon ausgeht, daß ein Volk sich … trägt … durch die immanente geistige Kraft, durch die produktive seelische Substanz, deren durch Freiheit wie Notwendigkeit gleichermaßen geprägte Werke … die Arbeit und den Besitz, die Fülle und die Zucht eines Volkes in die weiten Räume der menschlichen Geschichte tragen.“
In dieser Formulierung ist Benns Verständnis der Nation als eines geistig begründeten Raumes fokussiert. Unter Berufung auf die Großen der Vergangenheit (Schiller und Herder werden namentlich genannt) plädiert er schließlich für „unser drittes Reich“, weit oberhalb der von Klassen-, Massen- und Rassenpolitik durchfurchten Ebene.
Benn dachte nach 1933 nicht daran, Deutschland zu verlassen, und seine Meinung von denen, die es taten, war nie eine gute. 1949 schrieb er an Oelze: „Wer heutzutage die Emigranten noch ernst nimmt, der soll ruhig dabei bleiben … Sie hatten vier Jahre lang Zeit; alles lag ihnen zu Füßen, die Verlage, die Theater, die Zeitungen hofierten sie … aber per saldo ist doch gar nichts dabei zutage gekommen, kein Vers, kein Stück, kein Bild, das wirklich von Rang wäre“. Noch gegen Ende seines Lebens konstatierte er in Gegenwart von Freunden, die über die Grenzen gegangen waren, Emigration sei eine ganz und gar nutzlose Sache.
1948, als alle versuchen, sich als gute Schüler der Demokratie zu erweisen, wagt er es, im „Berliner Brief“ ebendieser „Vermittelmäßigungsmaschinerie“ für die künstlerische Existenz eine Absage zu erteilen: sie sei „zum Produktiven gewendet absurd. Ausdruck entsteht nicht durch Plenarbeschlüsse, sondern im Gegenteil durch Sichabsetzen von Abstimmungsergebnissen, er entsteht durch Gewaltakt in Isolation.“ Decker kommentiert lakonisch, es handle sich um „eine feine Unterscheidung, die ihm bis heute noch keiner widerlegt hat“, und: „Da ist er wieder, der Barbar, ohne den das Genie nicht vorkommt“.
Benns Geistesverwandtschaft mit Ernst Jünger ist hier unverkennbar, wenngleich vieles in Perspektive und Stilistik (im weitesten Wortsinne) die beiden trennt. Sie korrespondieren sparsam, doch bemerkt Benn 1950, „wie sehr sich seine und meine Gedankengänge z. T. berühren“, und berichtet über einen Besuch Jüngers – den wohl längsten, den er je zuhause gestattete: „Wir tranken ganz reichlich, und dabei kamen wir uns näher und wurden offen miteinander.“ So hat Decker recht, wenn er resummiert: „Sie haben gemeinsame Themen und im Alter eine ähnlich stoische Haltung zur Welt. Sie sehen in der Parteien-Demokratie einen untauglichen Versuch, das Überleben der Menschheit an der Schwelle zum 21. Jahrhundert zu sichern, verachten die Politik und kultivieren den Mythos als Erneuerung der Menschheit. Jüngers ‚Waldgänger’ und erst recht sein ‚Anarch’ sind Benns ‚Ptolemäer’ und dem ‚Radardenker’ verwandt.“
Der „Ptolemäer“, ein 1949 publizierter Essay, bekennt sich schon im Titel zu einem „erdzentrierten“, statischen Weltbild, dem jede Aufwärtsbewegung fremd ist. Diese treffliche Erkenntnis ist gleichwohl nicht mit Resignation zu verwechseln, sondern ruft zum Dasein nach eigenem Gesetz: „halte auch du dich in dem Land, in das dich deine Träume ziehen und in dem du da bist, die dir auferlegten Dinge schweigend zu vollenden“. Während die Masse im Strudel der Nichtigkeiten taumelt, ist es das Amt weniger, sich zu bewähren. In einer Vision des monologisierenden Sprechers findet sich das schöne Bild: „Die Orden, die Brüder werden vor dem Erlöschen noch einmal auferstehen. Ich sehe an Wassern und auf Bergen neue Athos und neue Monte Cassinos wachsen, – schwarze Kutten wandeln in stillem, in sich gekehrtem Gang.“

Als Exponent autonomen Künstlertums steht Benn beispielhaft gegen jede Art von Unterwerfung des Geistes unter politische Zwecke (was die Symbiose auf gleicher Höhe nicht ausschließt, also keineswegs eine apolitische Geistigkeit fordert). Damit ist er von der Ochlokratie unserer Tage ebenso weit entfernt wie von totalitären Systemen. „Was er nicht erträgt, ist eine falsche Gläubigkeit, die das Wesen der Kunst verkennt und diese auf ihre Nebenzwecke reduziert … Und eben inmitten von Konsum und Unterhaltung, den großen Verdurchschnittlichungsmächten, die aus der Verbindung von Kapitalismus und parlamentarischem System hervorgehen, schwindet das Wissen um diese elementare Gewalt der Kunst, die eine geistige Gegenwelt behauptet“ (Decker).
Heute ist der deutsche Nationalismus Äonen davon entfernt, die Hebel der Macht zu bedienen. Insofern stellt sich die Frage, ob er mit der Erfahrung der letzten siebzig Jahre gelernt habe, dem großen Einzelnen bedingungslose Freiheit zuzugestehen, nicht als praktische. Gegebenenfalls wird man einer geschichtlichen Verantwortung nur dann gerecht werden können, wenn nicht allein die „Banalität des Guten“ zugunsten einer „neuen deutschen Härte“ überwunden ist, sondern auch fatale Dummheiten nicht wiederholt werden – von denen Talleyrand bekanntlich gesagt hat, sie seien schlimmer als Verbrechen.

Decker, Gunnar: Gottfried Benn. Genie und Barbar, Aufbau-Verlag, Berlin 2006, 544 S., 26,90 €

dimanche, 26 décembre 2010

La cultura accademica e il nazionalsocialismo

La cultura accademica e il nazionalsocialismo

Luca Lionello Rimbotti

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Segnaliamo volentieri ai nostri lettori la recente uscita del libro curato da Pier Giorgio Zunino, Università e Accademie negli anni del fascismo e del nazismo, pubblicato dall’Editore Olschki di Firenze: si tratta degli atti di un convegno internazionale tenuto a Torino nel 2005, che si è occupato dei rapporti tra i regimi italiano e tedesco e filosofi, storici, scienziati e accademici di ogni ramo. È una pubblicazione di grande importanza – se pure a tratti pesantemente orientata – per lo studio in profondità di un argomento troppo spesso affrontato per luoghi comuni. Per brevità, faremo qui solo poche osservazioni relativamente al caso tedesco, forse meno noto e comunque in Italia più che altrove sottoposto a poco scientifiche generalizzazioni.

L’argomento dell’apporto della classe filosofica al potenziamento dell’ideologia nazionalsocialista è indagato da Hans Jörg Sandkühler che, dopo aver ricordato l’adesione alla Dichiarazione a favore di Adolf Hitler, sottoscritta nel 1933 da circa mille professori tedeschi (tra cui luminari come Heidegger, Gadamer, Gehlen, Rothacker, Freyer), ricorda che nel Terzo Reich non c’era l’obbligo di iscrizione al Partito: cionondimeno i summenzionati accademici furono Parteigenossen. Dal loro impegno risultò la volontà di creare una «scienza nuova» che partecipasse alla «costruzione di una visione del mondo nazionalsocialista»… si trattava insomma di un sapere in progress, come si dice, non dogmatico, ma in divenire… tanto che un altro degli autori, Gereon Wolters, nel capitolo intitolato Il “Führer” e i suoi pensatori, scrive: «Sostengo inoltre che alla filosofia coltivata nelle università restava, nel Terzo Reich, uno spazio abbastanza ampio in cui muoversi…». Del resto, come ricorda Sandkühler, la macchina burocratica di quel Regime non solo permise tra gli altri al filosofo Joachim Ritter – in passato simpatizzante della “sinistra” – di iscriversi alla NSDAP, ma anche respinse varie denunce di zelanti colleghi, con la motivazione che a quel professore, se espulso, si sarebbe recato danno: «sarebbe per lui una cosa estremamente complessa, dal punto di vista umano, doversi cercare un nuovo lavoro». Tanta sensibilità non fu riservata a molti filosofi nazisti nel dopoguerra “democratico”, quando, ad esempio Alfred Baeumler, cacciato dall’Università, dovette scontare ben tre anni di prigione per aver diffuso le sue idee, mentre a molti altri – tra cui Heidegger – venne per lungo tempo oppure per sempre proibito l’insegnamento…

 

Per converso, singolare per la sua ottusità, se non proprio esilarante, appare l’affermazione di Wolters sul prestigio filosofico che a suo dire avrebbero avuto i capi del comunismo… in confronto con l’incolta mediocrità che invece connoterebbe quelli nazionalsocialisti. Questa l’argomentazione: «Gli ideatori del comunismo avevano un’affinità più o meno grande con la filosofia. Karl Marx, ad esempio… Engels e Lenin erano menti filosofiche… si può dire la stessa cosa persino di Stalin… Non è lo stesso per i gerarchi nazisti». Questi ultimi vengono definiti, a cominciare da Hitler, Goering e Himmler, come una serie di ignoranti falliti… tra i quali il solo Goebbels sarebbe stato «l’istruito del governo». Anche se lo stesso Wolters scrive – certo senza accorgersi della contraddizione – che Hitler, nella sua teoria politico-razziale, venne anticipato – «in maniera molto simile», si precisa – niente meno che da Fichte, uno dei maggiori filosofi della cultura mondiale: non male per un “analfabeta”, come è stato definito Hitler da Viktor Klemperer e da altri. E questo, nonostante che svariati studi – come il recente La biblioteca di Hitler di Timothy W. Ryback (Mondadori) – abbiano dimostrato invece la vastità degli interessi culturali di Hitler. Che, se non fu laureato, egualmente non lo furono personaggi del rango di uno Spengler, di un Croce, di un Papini, di un Prezzolini… Ora, per parlar male del Nazionalsocialismo, a nostro giudizio non occorrerebbe dire sciocchezze o affermare rozzamente dei falsi facilmente verificabili. Innanzi tutto, si noterà che Wolters contrappone gli “ideatori” del comunismo ai “gerarchi” del Nazionalsocialismo: cioè paragona due specie diverse, i filosofi e i politici.

Per fare un raffronto equivalente, bisognerebbe infatti che anche nel caso nazista fossero chiamati in causa gli “ideatori” filosofici della sua ideologia: e allora ci si potrebbe rifare al marxista György Lukàcs, che nel suo famoso libro La distruzione della ragione del 1959 provò, in centinaia di fitte pagine, che la Weltanschauung nazista aveva come diretti ascendenti i protagonisti dell’intera cultura dell’idealismo tedesco, da Hegel, Fichte e Schelling fino a Schopenhauer e oltre: cosa che certo non può vantare il comunismo, ristretto ad alcuni e pochi studiosi di economia, spesso autodidatti (a cominciare da Engels, che non terminò nemmeno il liceo). Quanto poi a definire Stalin “filosofo”, beh… neppure i più servili “socialisti reali” si azzardarono mai a tanto. È del resto noto che Stalin come massima frequentazione culturale poté vantare solo un breve soggiorno presso un seminario ortodosso georgiano e non varcò mai la soglia di un’accademia…

In proposito, attiriamo l’attenzione sul fatto che il nostro “democratico” autore trascura – per ignoranza? – l’evidenza da tutti conosciuta, e cioè che proprio tra i gerarchi del Terzo Reich figurava un numero singolarmente alto di laureati: non il solo Goebbels (in filosofia), ma ad esempio – per limitarci ai più in vista – lo erano anche Hans Frank, Arthur Seyss-Inquart, Wilhelm Frick, Hans Kerrl (tutti e quattro in giurisprudenza), Baldur von Schirach (germanistica), Albert Speer e Alfred Rosenberg (architettura), Walter Funk (economia), Bernard Rust e Robert Ley (filosofia), eccetera eccetera. A scorrere il libro di Michael Grüttner Biografische Lexicon zur nationalsozialistischen Wissenschaftspolitik, recentemente pubblicato in Germania dalle Edizioni Synchron di Heidelberg, si constata inoltre che le centinaia di intellettuali biografati, professori, scienziati, rettori di università, presidenti di istituti scientifici, membri di accademie e alte scuole, studiosi di ogni disciplina, costituirono l’ossatura del partito nazista e delle sue organizzazioni politico-culturali, ma non di rado anche di istituzioni ad ancora più elevato tasso ideologico che non la NSDAP, come ad esempio la Ahnenerbe, il SD o le SS.

In questa rapida analisi, ci soccorre il testo di Max Weinreich I professori di Hitler (Il Saggiatore), che letteralmente pullula di nomi di meno noti, famosi e spesso eminenti intellettuali che aderirono al Nazionalsocialismo, non solo passivamente o per convenienza, ma in modo attivo, militante, prendendo parte a nuove istituzioni, scuole, corsi di studio, sovente ricoprendo al contempo cariche politiche e sempre condividendo le scelte del Regime, dall’imperialismo all’antiebraismo.

Ne è un esempio tra i tanti l’Istituto del Reich per la Storia della Nuova Germania, fondato nel 1935. Di esso, tanto per fare solo un cenno, fecero parte personaggi come Wilhelm Stapel (uno dei maggiori esponenti della “Rivoluzione Conservatrice”), il professore di sociologia all’Università di Lipsia Hans Freyer, lo storico della filosofia Max Wundt dell’Università di Tubinga, il filologo germanista Otto Höfler (collaboratore dell’Ahnenerbe, professore a Vienna e ancora nel dopoguerra riconfermato come membro dell’Accademia Austriaca delle Scienze), il fisico Philipp Lenard (premio Nobel, che ebbe tra i suoi allievi Einstein), lo storico Karl Alexander von Müller, presidente della sezione bavarese della Deutsche Akademie (di cui fece parte anche il filosofo e psicologo Ludwig Klages), lo storico dell’Università di Jena Johann von Leers (tre lauree, cinque lingue parlate correntemente: lo stesso che nel dopoguerra troverà rifugio prima in Argentina, poi nell’Egitto di Nasser), nonché ad esempio lo storico austriaco Heinrich von Srbik o studiosi più noti al grande pubblico, come i filosofi Alfred Baeumler ed Ernst Krieck o l’antropologo Hans F. K. Günther… e così via: tutti costoro erano iscritti alla NSDAP o alle sue diramazioni e attivi promotori di iniziative di divulgazione politica ufficialmente riconosciute.

A questi casi – che assommano non a decine, ma a centinaia di intellettuali di rilievo, molti dei quali ancora oggi ricordati nelle storie delle rispettive discipline – non possiamo non aggiungere i nomi celebri di Heidegger, Schmitt, Strauss, Hauptmann, Weinheber… ai quali affianchiamo casi di chiara fama, come quelli dei filosofi Arnold Gehlen, Friedrich Gogarten, Hans-Georg Gadamer, Oskar Becker, Nicolai Hartmann, Joachim Ritter, Erich Rothacker (il fondatore dell’antropologia filosofica e maestro del giovane Habermas)… e ci fermiamo qui per non annoiare il lettore con un elenco che potrebbe durare parecchio… Ad ogni buon conto, anche questi ultimi erano tutti membri del Partito o delle sue leghe professionali e aperti sostenitori del Regime, e nel dopoguerra – opportunamente mimetizzatisi, secondo una pratica ben conosciuta anche in Italia – assursero al rango di autorità internazionali. Ma anche quei pochi cattedratici che non furono nazionalsocialisti, ma solo “fiancheggiatori”, svolsero una funzione intellettuale di impegno pubblico in aperto appoggio al Regime: e si cita il caso tipico del grande storico Gerhard Ritter – cui è dedicato nel libro della Olschki un intero capitolo -, il cui nazionalconservatorismo finì col diventare, specialmente dal 1936 e fino alla fine del 1944, del tutto indistinguibile dall’ideologia nazista, conferendole ulteriore prestigio culturale.

Di fronte a questi dati, sembra impallidire non poco l’abituale refrain secondo cui l’avvento del Terzo Reich avrebbe significato la persecuzione della cultura, l’esilio degli intellettuali (tra i quali solo Thomas Mann e Einstein erano di primo piano) oppure il rogo dei libri: che non fu evidentemente un rogo “dei libri”, ma più esattamente un rogo “di certi libri”, a torto o a ragione giudicati incongrui alla propria visione del mondo. Secondo una liturgia simbolica popolare, del resto, direttamente attinta da deplorevoli pratiche per secoli largamente in uso presso la Chiesa cristiana…

Dalla mole documentale portata da studiosi di ogni tendenza siamo dunque forzati a concludere che il Terzo Reich fu un regime massicciamente sostenuto dalla classe degli intellettuali, tra i quali figurarono nomi tra i maggiori della cultura europea del Novecento. Si tratta di una realtà che non trova paragoni – se non in Italia – con gli altri coevi governi, totalitari o democratici che fossero. È questa la conclusione cui giunge per l’appunto lo storico Pier Giorgio Zunino nella premessa al libro di Olschki da noi segnalato, quando, parlando del «corale consenso» da cui furono circondati il Fascismo e il Nazionalsocialismo, scrive che «furono loro, gli intellettuali… ad aprire per primi il catalogo delle presenze sociali che più largamente avevano aderito a quei regimi».

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Tratto da Linea del 23 gennaio 2009.

mercredi, 15 décembre 2010

Les dissidents de l'Action Française: Georges Valois

Archives 2008

Les dissidents de l’Action française : Georges Valois

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De Sorel à Maurras

valois.jpgPresque oublié aujourd’hui, Georges Valois fut l’un des écrivains politiques importants du début du siècle. Ayant dû abandonner ses études à l’âge de quinze ans, à cause de ses origines populaires, il avait été rapidement attiré par les milieux de gauche. Il commença par fréquenter différents groupes de tendance libertaire : L’Art social, de Charles-Louis Philippe, Les Temps nouveaux, de Jean Grave, L’Humanité nouvelle, de Charles Albert et Hamon. Parmi les collaborateurs de la revue qu’animait L’Humanité nouvelle figurait notamment Georges Sorel, qui devait exercer sur Valois une influence décisive. « Lorsque Sorel entrait (au comité de rédaction de la revue), écrit Valois dans D’un siècle à l’autre, il y avait un frémissement de l’intelligence chez les assistants et l’on se taisait. Nous l’écoutions. Ce n’étaient pas ses cinquante ans qui nous tenaient en respect, c’était sa parole. Sorel, forte tête de vigneron au front clair, l’œil plein de bonté malicieuse, pouvait parler pendant des heures sans que l’on songeât a l’interrompre ».

De quoi parlait ainsi Sorel ? Sans doute de ce qui lui tenait le plus à cœur : de la lutte, révolutionnaire, de l’avenir des syndicats, menacés non seulement par la ploutocratie capitaliste au pouvoir, mais aussi par le conformisme marxiste de la social-démocratie. Sans renier l’essentiel de la doctrine marxiste, Sorel reprochait notamment â l’auteur du Capital sa vision trop schématique de la lutte de classes, et sa méconnaissance des classes moyennes. Et il craignait par-dessus tout l’influence des intellectuels et des politiciens dans le mouvement ouvrier. Le mouvement ouvrier devait préserver son autonomie, et c’est à ce prix seulement qu’il pourrait donner naissance à l’aristocratie d’une société nouvelle. Son mépris de la médiocrité bourgeoise, à laquelle il opposait la vigueur populaire, triomphant dans le syndicalisme révolutionnaire, avait conduit Sorel à l’antidémocratisme. La démocratie n’était pour lui que le triomphe des démagogues, dont la justification la plus abusive. était le mythe du Progrès. C’est ainsi qu’un penseur primitivement situé à l’extrême-gauche se rapprochait sans l’avoir expressément cherché, des théoriciens réactionnaires, condamnant eux aussi, au nom de leurs principes, la démocratie capitaliste.

Influencé par Sorel, et aussi par la pensée de Proudhon et de Nietzsche, Georges Valois écrivit son premier livre : L’Homme qui vient, philosophie de l’autorité. C’était l’œuvre d’un militant syndicaliste révolté par la corruption démocratique, aspirant à un régime fort. Ce régime, Georges Valois pensait que ce devait être la monarchie : il la concevait « comme un pouvoir réalisant ce que la démocratie n’avait pu faire contre la ploutocratie ». Ayant présenté son manuscrit à Paul Bourget, celui-ci le communiqua à Charles Maurras. Telle fut l’origine des relations entre l’ancien socialiste libertaire et le directeur de L’Action française.

Relatant après sa rupture avec Maurras son premier contact avec celui-ci, Valois écrivait : « C’est sur le problème économique et social que nous nous heurtâmes immédiatement. Dans la suite, Maurras s’abstint de renouveler cette dispute. Sa décision avait été prise ; il avait compris qu’il était préférable de m’associer à son œuvre et de m’utiliser en s’efforçant de m’empêcher de produire toute la partie de mon œuvre qu’il n’acceptait pas » (1). On comprend sans peine que ce que Valois gardait d’esprit socialiste et révolutionnaire n’ait pas convenu à Maurras. Il ne faut pas oublier cependant qu’à cette époque, Maurras s’exprimait en termes fort sévères contre le capitalisme, auquel il opposait l’esprit corporatif de l’ancien régime. Tout en défendant les principes d’ordre et d’autorité, il n’hésitait pas à défendre les syndicats contre le faux ordre et l’autorité abusive des dirigeants républicains. C’est ainsi que Maurras fut le seul grand journaliste de droite à flétrir la sanglante répression organisée par Clemenceau, président du Conseil, contre les grévistes de Draveil, dans les derniers jours de juillet 1908 :

« Cuirassiers, dragons et gendarmes », écrivait Maurras dans L’Action française, se sont battus comme nos braves troupes savent se battre. À quoi bon ? Pourquoi ? Et pour qui ? « Nous le savons. C’est pour que le vieillard à peine moins sinistre que Thiers, à peine moins révolutionnaire, puisse venir crier à la tribune. qu’il est l’ordre, qu’il est la propriété, qu’il est le salut. Nous ne dirons pas à ce vieillard sanglant qu’il se trompe. Nous lui dirons qu’il ment. Car il a voulu ce carnage. Cette tuerie n’est pas le résultat de la méprise ou de l’erreur. On ne peut l’imputer à une faute de calcul. Il l’a visée... Ce fidèle ministre d’Édouard VII ne mérite pas d’être flétri en langue française. L’épithète qui lui revient, je la lui dirai en anglais, où elle prendra quelque force : Bloody ! »

Les jours suivants, Maurras écrivait encore :

« La journée de Draveil a été ce que l’on a voulu qu’elle fût. M. Clemenceau n’a pratiqué ni le système du laisser-faire ni le système des justes mesures préventives, parce que dans les deux cas, surtout dans le second, il y avait d’énormes chances d’éviter cette effusion de sang qu’il lui fallait pour motiver les arrestations de vendredi et pour aboutir à l’occupation administrative et à la pénétration officielle de la Confédération générale du travail » (2).

Il est normal que le Maurras de cette époque ait pu attirer Georges Valois. Il attira aussi, pendant quelque temps, Georges Sorel lui-même : « Je ne pense pas, écrivait ce dernier à Pierre Lasserre en juin 1909, que personne (sauf probablement Jaurès) confonde l’ardente jeunesse qui s’enrôle dans l’Action française avec les débiles abonnés du Gaulois ». Il voyait dans le mouvement de Charles Maurras la seule force nationaliste sérieuse. « Je ne suis pas prophète, disait-il à Jean Variot. Je ne sais pas si Maurras ramènera le roi en France. Et ce n’est pas ce qui m’intéresse en lui. Ce qui m’intéresse, c’est qu’il se dresse devant la bourgeoisie falote et réactionnaire, en lui faisant honte d’avoir été vaincue et en essayant de lui donner une doctrine ». En 1910, Sorel écrivait à Maurras pour le remercier de lui avoir envoyé son Enquête sur la monarchie. « Je suis, disait-il notamment, depuis longtemps frappé de la folie des auteurs contemporains qui demandent à la démocratie de faire un travail que peuvent seules aborder les royautés pleines du sentiment de leur mission » (3).

Cependant, Sorel gardait ses distances vis-à-vis de l’Action française. Georges Valois avait au contraire adhéré au mouvement peu de temps après sa première rencontre avec Maurras. On trouve l’expression de ses idées à l’époque dans La révolution sociale ou le roi et dans L’Enquête sur la monarchie et la classe ouvrière. Le titre du premier de ces essais suffit à montrer la rupture de Valois avec les formations de gauche. La thèse de Valois est que la Révolution de 1789 n’a pas été le triomphe de la bourgeoisie contre le peuple, comme on le dit souvent, mais le triomphe de « déclassés de toutes les classes » aussi bien contre la bourgeoisie que contre le peuple et l’aristocratie. Sans doute les républicains surent-ils se concilier une partie de la bourgeoisie, plus spécialement celle « qui, au temps de Louis-Philippe et sous l’Empire, voit sa puissance économique s’accroître avec une rapidité extrême, c’est-à-dire la bourgeoisie industrielle, urbaine, qui fait à ce moment un effort de production énorme et se croit volontiers dominatrice » (4). Mais en fait cette bourgeoisie a été dupée par les politiciens qui gouvernaient en son nom. Après avoir séparé cette bourgeoisie urbaine des agriculteurs. les politiciens républicains ont excité le peuple contre elle. Et la bourgeoisie qui domine vraiment l’État n’est pas cette bourgeoisie dupée, c’est celle de ce que Maurras appelle « les quatre États confédérés » : les Juifs, les Métèques, les Protestants et les Maçons.

La trahison socialiste

Ce phénomène politique, remarque Valois, échappe au prolétariat, qui n’est pas représenté par les siens au Parlement. Il y a en France un parti socialiste, mais Valois pense, comme Georges Sorel et Édouard Berth, que ce parti ne vaut pas mieux que les autres partis républicains, qu’il est d’ailleurs le complice des partis dits bourgeois. Et il cite à ce sujet l’opinion de Sorel dans ses Réflexions sur la violence :

« Une agitation, savamment canalisée, est extrêmement utile aux socialistes parlementaires, qui se vantent, auprès du gouvernement et de la riche bourgeoisie, de savoir modérer la révolution ; ils peuvent ainsi faire réussir les affaires financières auxquelles ils s’intéressent, faire obtenir de menues faveurs à beaucoup d’électeurs influents, et faire voter des lois sociales pour se donner de l’importance dans l’opinion des nigauds qui s’imaginent que ces socialistes sont de grands réformateurs du droit. Il faut, pour que cela réussisse, qu’il y ait toujours un peu de mouvement et qu’on puisse faire peur aux bourgeois » (5).

Bref, les dirigeants socialistes dupent la classe ouvrière, exactement comme ceux des partis républicains libéraux dupent la classe bourgeoise ; ce ne sont pas de véritables anti-capitalistes, mais les serviteurs d’un capitalisme étranger, auquel ils sacrifient le mouvement syndical. « C’est pourquoi, écrit Valois, les républicains nourrissent une hostilité irréductible à l’égard du mouvement syndicaliste, et c’est ce qui doit montrer à nos camarades qui sont profondément pénétrés de la nécessité de l’action syndicale que l’État républicain et l’organisation syndicale ouvrière sont deux faits qui s’excluent l’un l’autre » (6). Certains militants syndicalistes en sont d’ailleurs convaincus, et ils préfèrent l’action directe à une action s’exerçant par l’intermédiaire des pouvoirs publics. Valois se déclare d’accord avec eux, mais il entend leur faire admettre que leur esprit de classe n’est nullement incompatible, bien au contraire, avec l’adhésion à la monarchie.

Ce n’est pas, précise Valois, la violence révolutionnaire qui peut effrayer les militants monarchistes, qui comptent dans leurs rangs plus de non-possédants que de possédants. Les monarchistes rejettent la révolution sociale parce qu’elle représente l’extension à la vie économique de l’erreur politique démocratique, parce qu’elle introduirait la démagogie au cœur de la production. Il y aurait sans doute une réaction contre les conséquences de cette démagogie, mais les travailleurs en seraient les premières victimes : « Il se constituerait rapidement, dans chaque groupe de producteurs, une petite aristocratie qui régnerait sur la masse par la terreur et la corruption, embrigaderait une sous-aristocratie par de menues faveurs, et imposerait ainsi à la majorité la même loi de travail qu’imposent aujourd’hui les capitalistes, et en profiterait » (7). De plus, la révolution entraînerait la disparition de l’or, lequel constitue une garantie irremplaçable. Pour en retrouver, les révolutionnaires devraient faire appel aux capitalistes soi-disant favorables à leur cause, c’est-à-dire aux capitalistes juifs. « C’est vers eux, écrit Valois, que l’on se tournera pour résoudre le problème de la circulation des produits interrompue par l’absence d’or, et si l’on ne songe pas à eux tout d’abord, leurs agents, juifs et non juifs, seront chargés de diriger les pensées vers eux. On leur demandera de l’or, et ils le prêteront ; ils le prêteront en apparence sans exiger de garanties, mais en s’assurant en fait des garanties solides ». Les travailleurs ne se libéreraient d’une exploitation nationale que pour tomber sous le joug d’une exploitation internationale, plus dangereuse parce que plus puissante. « Il est probable qu’un terrible mouvement antisémite se développerait et se manifesterait par le plus beau massacre de Juifs de l’histoire ; mais les Juifs feraient alors appel aux armes étrangères pour leur défense, et se maintiendraient avec le concours de l’étranger, avec qui ils dépouilleraient la nation toute entière » (8). N’oublions pas que ces lignes furent écrites peu après l’affaire Dreyfus, en un temps où l’antisémitisme le plus frénétique fleurissait dans de vastes secteurs de l’opinion française.

L’appel au roi, solution sociale

Pour éviter ce remplacement de l’exploitation présente par une exploitation plus dure encore, Valois ne voit qu’une solution : l’appel au roi. Le roi ne saurait être le défenseur d’une seule classe sociale ; il est l’arbitre indépendant et souverain dont toutes les classes ont besoin pour défendre leur intérêt commun. Il ne peut souhaiter que la prospérité générale de la nation, et donc la prospérité de la classe ouvrière. « Il sait que des bourgeois, ou des politiciens qui n’ont aucune profession avouable, ne peuvent en aucune manière représenter le peuple des travailleurs ; pour connaître les besoins de la classe ouvrière, il appelle donc dans ses conseils les vrais représentants de cette classe, c’est-à-dire les délégués des syndicats, des corporations, des métiers. Le roi doit donc non seulement favoriser, mais provoquer le développement intégral de l’organisation ouvrière, en faisant appel à ce qui lui donne son caractère rigoureusement ouvrier : l’esprit de classe. En effet, pour que les républiques ouvrières envoient auprès du roi leurs vrais représentants, il faut qu’elles soient impénétrables à tout élément étranger à la classe ouvrière ; il faut donc que les travailleurs aient une vive conscience de classe qui les amène à repousser instinctivement les politiciens, les intellectuels et les bourgeois fainéants qui voudraient pénétrer parmi eux pour les exploiter » (9).

L’esprit de classe ainsi envisagé ne conduit donc pas à la lutte de classe au sens marxiste du terme, il n’est pas question d’établir la dictature du prolétariat ; la bourgeoisie a un rôle nécessaire à jouer dans la société nationale, et il importe qu’elle joue ce rôle en développant au maximum l’effort industriel. Les ouvriers ont besoin de patrons, et même, dit Valois, de patrons « durs », car la classe ouvrière préfère infiniment des capitalistes ardents au travail, et sachant rémunérer les services rendus, que des patrons « philantropiques », dont l’attitude est pour elle offensante. Autrement dit, l’égoïsme vital du producteur est préférable à la bienveillance du paternaliste, à condition que cet égoïsme soit orienté dans le sens de l’intérêt national.

Telles étaient les idées que Georges Valois tentait de répandre dans les milieux ouvriers. Certaines réponses au questionnaire qu’il avait adressé à des personnalités syndicalistes sur la Monarchie et la classe ouvrière le fortifièrent dans ses convictions. Ces personnalités étaient en effet d’accord avec lui pour penser que « le régime républicain parlementaire est incompatible avec l’organisation syndicale, et que la République est essentiellement hostile aux classes ouvrières » (10). La raison de cet état de choses résidait pour Valois dans le libéralisme hérité de 89, ennemi des associations ouvrières détruites par la loi Le Chapelier. Mais il prenait soin de montrer que le socialisme n’était pas un remède aux maux du libéralisme. « Les systèmes socialistes collectivistes, écrivait-il, développent les principes républicains, transportent le principe de l’égalité politique dans l’économie, et, construits en vue d’assurer à tous les hommes des droits égaux et des jouissances égales, ils refusent aux citoyens, comme le fait l’État républicain, le droit de « se séparer de la chose publique par un esprit de corporation ». En face de la collectivité propriétaire de tous les biens, en face de l’État patron, les travailleurs sont privés du droit de coalition. Ils devront subir les conditions de travail qui seront établies par la collectivité, pratiquement par l’État, c’est-à-dire par une assemblée de députés, et ils ne pourront les modifier que par l’intermédiaire de leurs députés... » (11).

Refusant l’étatisme socialiste, Valois condamnait également l’anarchie, celle-ci refusant les disciplines syndicales aussi bien que toutes les autres, et étant « en rébellion aussi bien contre les nécessités de la production que contre les lois des gouvernements ».

Les syndicats doivent avant tout se défendre contre la pénétration d’éléments qui tentent de les politiser. Valois s’inquiète à ce propos de l’évolution de la Confédération générale du travail, victime des conséquences d’une centralisation abusive : « Mille syndicats, cinquante fédérations, réunis par leurs chefs dans un seul organisme, loin de leurs milieux naturels, installés dans des bureaux communs, où pénètre qui veut, sont sans défense contre la bande de journalistes, d’intellectuels et de politiciens sans mandat qui envahissent les bureaux, qui rendent des services personnels aux fonctionnaires syndicaux, recherchent leur amitié et leur demandent, non l’abandon de leurs principes mais une collaboration secrète. Le péril pour le syndicalisme est là » (12).

Pour rendre à la vie syndicale son vrai caractère, il faut revenir à la vie corporative : non pas ressusciter les anciennes corporations, mais fonder de nouvelles associations professionnelles répondant aux nécessités modernes. Toutefois, Valois est formel sur ce point : aucune nouvelle vie corporative ne sera possible tant que la démocratie parlementaire ne sera pas remplacée par la monarchie.

Valois à l’Action française

Les idées politiques et sociales de Georges Valois s’accordaient donc exactement avec celles de Maurras et de L’Action française. Cependant Maurras ne fit pas immédiatement appel à lui pour traiter des questions économiques et sociales dans sou journal : il préférait dans ce domaine la collaboration de disciples de La Tour du Pin, plus modérés ou plus effacés que Valois. Ce dernier chercha à s’exprimer dans des publications autonomes. La création d’une revue réunissant des syndicalistes et des nationalistes, La Cité française, fut décidée. Georges Sorel, qui avait promis sa collaboration, rédigea lui-même la déclaration de principe. « La démocratie confond les classes, y lisait-on, afin de permettre à quelques bandes de politiciens, associés à des financiers ou dominés par eux, l’exploitation des producteurs. Il faut donc organiser la cité en dehors des idées démocratiques, et il faut organiser les classes en dehors de la démocratie, malgré la démocratie et contre elle. Il faut réveiller la conscience que les classes doivent posséder d’elles-mêmes et qui est actuellement étouffée par les idées démocratiques. Il faut réveiller les vertus propres à chaque classe, et sans lesquelles aucune ne peut accomplir sa mission historique » (13).

Mais la Cité française ne fut qu’un projet. Selon Pierre Andreu, historien de Georges Sorel, c’est l’Action française, « voulant s’assurer à la faveur d’une querelle Valois-Variot une sorte de mainmise occulte sur l’avenir de la revue », qui empêcha celle-ci de voir le jour. Les jeunes « soréliens » de l’Action française ne se découragèrent pas, et en mars 1911, Valois créait avec Henri Lagrange le Cercle Proudhon. Les plus audacieux, et les plus ouverts des jeunes intellectuels de l’Action française furent attirés par ce groupe, dont Maurras approuvait les intentions. Mais Georges Sorel se montrait maintenant sceptique sur la possibilité de. défendre la pensée syndicaliste en subissant trop étroitement l’influence maurrassienne. L’éclatement de la guerre de 14 mit un terme à cette tentative de réunion des éléments monarchistes et syndicalistes.

Cette tentative portait cependant quelques fruits. Georges Valois prit la parole dans les congrès de l’Action française de 1911, 1912 et 1913, afin d’expliquer aux militants « bourgeois » du mouvement les raisons pour lesquelles ils devaient souhaiter l’alliance des syndicalistes, victimes du régime démocratique. Ses interventions obtinrent un grand succès, ce qui n’est pas surprenant, car le tempérament « révolutionnaire » des militants d’Action française leur permettait de comprendre le point de vue de Valois, même lorsqu’il faisait appel à des notions ou à des principes assez éloignés, du moins en apparence, de leurs propres convictions traditionalistes.

D’autre part, Valois fut bientôt appelé à diriger une maison d’édition, la Nouvelle librairie nationale, destinée à grouper les auteurs membres ou amis de l’Action française. Maurras, Daudet, Bainville, Bourget et aussi Maritain et Guénon, furent parmi les auteurs de cette maison, qui devait subsister jusqu’en 1927. Mobilisé en 1914, Valois put reprendre son activité en 1917. Outre la direction de la Nouvelle librairie nationale, il décida de donner une nouvelle impulsion à son action sociale. Il eut l’idée de créer des sociétés corporatives, et d’organiser des semaines - notamment du Livre et de la Monnaie - pour mieux faire comprendre la portée concrète de ses idées. « Tout cela, écrira-t-il plus tard, était pour moi la construction de nouvelles institutions. Les gens de l’Action française n’y comprenaient absolument rien. Je cherchais le type nouveau des assemblées du monde moderne. Pendant que les gens de l’Action française continuaient de faire des raisonnements, je travaillais à la construction de ces institutions ».

En parlant de la sorte des « gens d’Action française », Georges Valois vise évidemment les dirigeants et les intellectuels du mouvement, et non ses militants, auprès desquels il jouissait d’une importante audience. Il se heurtait en effet à une certaine méfiance de la part des comités directeurs de l’Action française, qui n’avaient sans doute jamais pris très au sérieux les intentions du Cercle Proudhon. Pour éclaircir la situation, Valois eut un entretien avec Maurras et Lucien Moreau. Il déclara à Maurras que, selon lui, il fallait maintenant préparer la prise du pouvoir, et ne plus se contenter de l’action intellectuelle. Il lui demanda s’il avait un plan de réalisation de ses idées. « Maurras, écrit-il, fut extrêmement embarrassé par mes questions. Il nous fit un discours d’une demi-heure pour me démontrer que, nécessairement, il avait toujours pensé à faire ce qu’il disait. Je lui demandais des ordres, il n’en donna aucun. Alors je lui indiquai un plan et lui déclarai qu’il était absolument impossible de faire adhérer les Français à la monarchie ; que la seule chose possible était de sortir du gâchis parlementaire par une formule pratique, de faire une assemblée nationale et d’y poser les questions fondamentales » (14).

Il y avait donc eu, chez Valois, une évolution assez sensible par rapport à ses positions d’avant 1914. À ce moment-là, il ne s’employait pas seulement à faire comprendre aux monarchistes traditionalistes la légitimité du syndicalisme, mais aussi à faire comprendre aux syndicalistes la nécessité de la monarchie. En 1922, l’idée de rallier les élites du monde du travail à la solution monarchiste lui semblait donc assez vaine. D’autre part, il ne s’intéressait plus seulement aux forces ouvrières, mais, semble-t-il, à l’ensemble des forces économiques du pays. Le doctrinaire élargissait son horizon, peut-être parce que les nécessités de l’action l’obligeaient à le faire.

Son idée principale était de lancer à travers toute la France une « convocation des États généraux », créant ainsi la représentation réelle des forces nationales, par opposition à la représentation artificielle du parlementarisme. Maurras pouvait difficilement être contre un principe aussi conforme à sa doctrine, et notamment à sa fameuse distinction entre le pays réel et le pays légal. Il donna donc son accord pour ce projet. Celui-ci n’eut qu’un commencement de réalisation, l’assassinat par une militante anarchiste du meilleur ami de Valois à l’Action française, Marius Plateau, ayant interrompu le travail en cours. Les autres dirigeants de l’Action française étaient plus ou moins hostiles au projet de Valois, auquel ils préféraient la préparation de leur participation aux élections de 1924. Mais à ces élections, les candidats de l’Action française furent largement battus.

C’est alors que Georges Valois songea à mener son combat en marge de l’Action française, sans rompre cependant avec celle-ci. Il prépara notamment « une action en direction des Communistes, pour extraire des milieux communistes des éléments qui n’étaient attachés à Moscou que par déception de n’avoir pas trouvé jusque-là un mouvement satisfaisant pour les intérêts ouvriers ». Naturellement, l’action comportait une large participation ouvrière à tout le mouvement, par incorporation de militants ouvriers au premier rang du mouvement (15). Pour appuyer cette action, Valois décidait de créer un hebdomadaire, Le Nouveau Siècle.

Dans le premier numéro du journal, paru le 25 février 1925, on peut lire une déclaration que vingt-huit personnalités - parmi lesquelles Jacques Arthuys, Serge André, René Benjamin, André Rousseaux, Henri Ghéon, Georges Suarez, Jérôme et Jean Tharaud, Henri Massis - ont signée aux côtés de Valois. Le Nouveau Siècle, y lit-on notamment, est fondé pour « exprimer l’esprit, les sentiments, la volonté » du siècle nouveau né le 2 août 1914. Il luttera pour les conditions de la victoire, que l’on a volée aux combattants : « Un chef national, la fraternité française, une nation organisée dans ses familles, ses métiers et ses provinces, la foi religieuse maîtresse d’elle-même et de ses œuvres ; la justice de tous et au-dessus de tous ».

« Nous travaillerons, disent encore les signataires, à former ou à reformer les légions de la victoire, légions de combattants, de chefs de familles, de producteurs, de citoyens ». On peut penser qu’il s’agit de faire la liaison entre différents mouvements nationaux tels que l’Action française, les Jeunesses patriotes et quelques autres. Mais le 11 novembre de cette même années 1925, Georges Valois annonce la fondation d’un nouveau mouvement, le Faisceau, qui sera divisé en quatre sections : Faisceau des combattants, Faisceau des producteurs, Faisceau civique et Faisceau des jeunes.

La ressemblance avec le fascisme italien est évidente. Valois a d’ailleurs salué l’expérience italienne avant de fonder son parti. Le mouvement fasciste, dit-il, est « le mouvement par lequel l’Europe contemporaine tend à la création de l’État moderne ». Ce n’est pas une simple opération de rétablissement de l’ordre : c’est la recherche d’un État nouveau qui permettra de faire concourir toutes les forces économiques au bien commun. Mais Valois souligne le caractère original du mouvement : « Le fascisme italien a sauvé l’Italie en employant des méthodes conformes au génie italien, le fascisme français emploiera des méthodes conformes au génie français ».

valois2livre.jpgMaurras se fâche

Maurras n’avait pas fait d’objections à ce que Valois entreprit un effort parallèle à celui de l’Action française. Valois fut bientôt désagréablement surpris de voir que Maurras cherchait à faire subventionner L’Action française par le principal commanditaire de son propre hebdomadaire, qu’il avait lui-même encouragé à aider l’Action française à un moment donné. D’autres difficultés surgirent. Maurras reprocha à Valois l’orientation qu’il donnait à sa maison d’édition. Mais Valois eut surtout le sentiment que les campagnes de son hebdomadaire « concernant les finances, la monnaie et la bourgeoisie », déplaisaient souverainement, sinon à L’Action française elle-même, du moins à certaines personnalités politiques ou financières avec lesquelles L’Action française ne voulait pas se mettre en mauvais termes. Un incident vint transformer ces difficultés en pure et simple rupture. Tout en animant son hebdomadaire, Valois continuait à donner des articles à L’Action française. Maurras lui écrivit à propos de l’un d’eux, regrettant de ne pas avoir pu supprimer cet article faute de temps, et se livrant à une vive critique de fond :

« Il suffit de répondre « non » à telle ou telle de vos questions pour laisser en l’air toute votre thèse. Il n’est pas vrai que « la » bourgeoisie soit l’auteur responsable du parlementarisme. Le régime est au contraire né au confluent de l’aristocratie et d’une faible fraction de la bourgeoisie (...) Les éléments protestants, juifs, maçons, métèques y ont joué un très grand rôle. L’immense, la déjà immense bourgeoisie française n’y était pour rien. Pour rien. « Maigre rectification historique ? Je veux bien. Mais voici la politique, et cela est grave. Depuis vingt-six ans, nous nous échinons à circonscrire et à limiter l’ennemi ; à dire : non, la révolution, non, le parlementarisme, non, la république, ne sont pas nés de l’effort essentiel et central du peuple français, ni de la plus grande partie de ce peuple, de sa bourgeoisie. Malgré tous mes avis, toutes mes observations et mes adjurations, vous vous obstinez au contraire, à la manœuvre inverse, qui est d’élargir, d’étendre, d’épanouir, de multiplier l’ennemi ; c’est, maintenant, le bourgeois, c’est-à-dire les neuf dixièmes de la France. Eh bien, non et non, vous vous trompez, non seulement sur la théorie, mais sur la méthode et la pratique. Vous obtenez des résultats ? Je le veux bien. On vous dirait en Provence que vous aurez une sardine en échange d’un thon. Je manquerais à tous mes devoirs si je ne vous le disais pas en toute clarté. Personne ne m’a parlé, je n’ai vu personne depuis que j’ai lu cet article et ai dû le laisser passer, et si je voyais quelqu’un, je le défendrais en l’expliquant, comme il m’est arrivé si souvent ! Mais, en conscience, j’ai le devoir de vous dire que vous vous trompez et que cette politique déraille. Je ne puis l’admettre à l’AF ».

Pour Georges Valois, l’explication de l’attitude de Maurras était claire : « Maurras et ses commanditaires avaient toléré ma politique ouvrière, tant qu’ils avaient pu la mener sur le plan de la littérature, mais du jour où je déclarais que nous passions à l’action pratique, on voulait m’arrêter net » (16).

Entre les deux hommes, une explication décisive eut lieu. Maurras reprocha notamment à Valois de détourner de l’argent de L’Action française vers son propre hebdomadaire. Valois contesta bien entendu cette affirmation, et démissionna de l’Action française et des organisations annexes de celle-ci auxquelles il appartenait.

La rupture était-elle fatale ? Y avait-il réellement incompatibilité totale entre la pensée de Maurras et celle de Valois ? Il est intéressant d’examiner à ce propos les « bonnes feuilles » d’un livre de Valois, parues dans l’Almanach de l’Action française de 1925 - c’est-à-dire un peu plus d’un an avant sa rupture avec celle-ci - livre intitulé : La révolution nationale. (Notons en passant que c’est probablement à Valois que le gouvernement du maréchal Pétain emprunta le slogan du nouveau régime de 1940).

Valois affirme d’abord que l’État français a créé une situation révolutionnaire, parce qu’il s’est révélé « totalement incapable d’imaginer et d’appliquer les solutions à tous les problèmes nés de la guerre ». Et selon Valois, cette révolution a commencé le 12 août 1914 avec ce que Maurras a appelé la monarchie de la guerre : c’est le moment où l’esprit héroïque s’est substitué à l’esprit mercantile et juridique. Mais après l’armistice, l’esprit bourgeois a repris le dessus, et cet esprit a perdu la victoire. Les patriotes le comprennent, ils se rendent compte qu’ils doivent détruire l’État libéral et ses institutions politiques, économiques et sociales, et le remplacer par un État national.

À l’échec du Bloc national - faussement national, selon Valois -, succède l’échec du Bloc des gauches. Ces deux échecs n’en font qu’un : c’est l’échec de la bourgeoisie, qu’elle soit conservatrice, libérale ou radicale. « La bourgeoisie s’est révélée impuissante, en France comme dans toute l’Europe, au gouvernement des États et des peuples ». Valois n’entend pas nier les vertus bourgeoises, qui sont grandes lorsqu’elles sont à leur place, c’est-à-dire dans la vie municipale et corporative, économique et sociale, mais il estime qu’elles ne sont pas à leur place à la tête de l’État. C’est qu’originairement, le bourgeois est l’homme qui a restauré la vie économique, dans des villes protégées par les combattants, qui tenaient les châteaux-forts et chassaient les brigands. Pour l’esprit bourgeois, de ce fait, « le droit, c’est un contrat, tandis que le droit, pour le combattant, naît dans le choc des épées. La loi bourgeoise a été celle de l’argent, tandis que la loi du combattant était celle de l’héroïsme ».

La paix ayant été restaurée, l’esprit bourgeois a voulu commander dans l’État. Or l’esprit bourgeois ne peut réellement gouverner : et le pouvoir est usurpé par les politiciens et la ploutocratie. L’illusion bourgeoise consiste à croire que la paix dépend de la solidarité économique, alors qu’elle dépend d’abord de la protection de l’épée. L’exemple de Rome le prouve : la paix romaine a disparu quand l’esprit mercantile l’a emporté sur l’esprit héroïque.

À la tête de l’État national dont rêve Valois, il y aura évidemment le roi, dont l’alliance avec le peuple sera le fruit de la révolution nationale. Et Valois veut espérer que certains Français, « qui paraissent loin de la patrie aujourd’hui », se rallieront à cette révolution, et notamment certains communistes : « Parmi les communistes, il y a beaucoup d’hommes qui ne sont communistes que parce qu’ils n’avaient pas trouvé de solution au problème bourgeois ». Le communisme leur dit qu’il faut supprimer la bourgeoisie, mais cette solution est absurde : la seule solution réaliste consiste à remettre les bourgeois à leur place, et au service de l’intérêt national. « Quand cette solution apparaît, le communiste est en état de changer ses conclusions, s’il n’a pas l’intelligence totalement fermée. Alors, il s’aperçoit qu’il n’est pas autre chose qu’un fasciste qui s’ignore ».

À l’époque où Valois écrit ces lignes, Mussolini est au pouvoir depuis deux ans. Valois n’ignore pas que son maître Georges Sorel est l’un des doctrinaires contemporains qui ont le plus fortement influencé le chef du nouvel Flat italien. Et il estime que le fascisme n’est pas un phénomène spécifiquement italien, qu’il y a dans le fascisme des vérités qui valent pour d’autres pays que l’Italie :

« Il y a une chose remarquable : le fascisme et le communisme viennent d’un même mouvement. C’est une même réaction contre la démocratie et la ploutocratie. Mais le communisme moscovite veut la révolution internationale parce qu’il veut ouvrir les portes de l’Europe à ses guerriers, qui sont le noyau des invasions toujours prêtes à partir pour les rivages de la Méditerranée. Le fasciste latin veut la révolution nationale, parce qu’il est obligé de vivre sur le pays et par conséquent d’organiser le travail sous le commandement de sa loi nationale ».

L’œuvre de la révolution nationale ne se limitera pas à la restauration de l’État ; celle-ci étant accomplie, la France prendra l’initiative d’une nouvelle politique européenne :

« Alors, sous son inspiration (la France), les peuples formeront le faisceau romain, le faisceau de la chrétienté, qui refoulera la Barbarie en Asie ; il y aura de nouveau une grande fraternité européenne, une grande paix romaine et franque, et l’Europe pourra entrer dans le grand siècle européen qu’ont annoncé les combattants, et dont les premières paroles ont été celles que Maurras a prononcées au début de ce siècle., lorsque par l’Enquête sur lu monarchie, il rendit à l’esprit ses disciplines classiques ».

Dans ce même Almanach de l’Action française, on peut lire également un reportage d’Eugène Marsan sur l’Italie de Mussolini. L’un des principaux dirigeants fascistes, Sergio Panunzio, ayant déclaré que le nouvel Etat italien devait être fondé sur les syndicats, Eugène Marsan commente :

« Une monarchie syndicale, pourquoi non ? Le danger à éviter serait un malheureux amalgame du politicien et du corporatif, qui corromprait vite ce dernier et rendrait vaine toute la rénovation. Puissent y songer tous les pays que l’on aime. Un siècle de palabre démocratique nous a tous mis dans un chaos dont il faudra bien sortir ».

Ce commentaire correspond exactement aux idées de Valois, telles que nous les avons examinées ci-dessus. Il faut noter également qu’il vient en conclusion d’un article extrêmement élogieux pour Mussolini et son régime. Or l’Almanach d’Action française était un organe officiel de celle-ci, les articles qui y paraissaient étaient évidemment approuvés par Maurras. Ce dernier avait-il changé d’avis sur l’Italie fasciste un an plus tard. en 1926 ? Rien ne permet de l’affirmer, au contraire : douze ans après, en 1937, Maurras lui-même publiait dans Mes idées politiques, un vibrant éloge du régime mussolinien. Remarquons encore que l’on peut lire dans ce même Almanach d’AF de 1925 un article d’Henri Massis figurant entre celui de Valois et celui de Marsan, sur « L’offensive germano-asiatique contre la culture occidentale », et dénonçant la conjonction du germanisme et de l’orientalisme contre la culture gréco-latine. On sait que Maurras voyait précisément dans le fascisme une renaissance latine, et qu’il comptait beaucoup sur le rôle qu’une Italie forte pourrait jouer dans une éventuelle union latine pour résister à la fois à l’influence germanique et à l’influence anglo-saxonne en Europe. La position de Georges Valois concernant le fascisme s’accordait donc avec ses propres vues.

C’est plutôt, semble-t-il, les positions de Valois en politique intérieure française qui provoquèrent son inquiétude. La lettre que nous avons citée prouve que l’« antibourgeoisisme » de Valois, admis par Maurras en 1925. lui parut inquiétant l’année suivante. Toutefois ce dissentiment d’ordre doctrinal aurait peut-être pu s’arranger, sans les malentendus qui s’accumulaient entre les dirigeants de l’Action française et Georges Valois. À tort ou à raison, certains membres des comités directeurs de l’Action française - et notamment Maurice Pujo - persuadèrent Maurras que Valois, loin de servir l’Action française, ne songeait qu’à s’en servir au profit de son action personnelle. Dans un tel climat, la rupture était inévitable.

L’heure du faisceau

Après avoir démissionné de l’Action française, Valois décida de fonder un nouveau mouvement politique : ce fut la création du Faisceau, mouvement fasciste français. La parenté du mouvement avec le fascisme italien se manifestait non seulement par sa doctrine. mais aussi par le style des militants, qui portaient des chemises bleues. Si Valois n’entraîna guère de militants d’Action française, il obtint en revanche l’adhésion d’un certain nombre de syndicalistes, heureux de sa rupture avec Maurras. À la fin de l’année 1925, le Faisceau bénéficiait de concours assez importants pour que Valois pût décider de transformer le Nouveau Siècle hebdomadaire en quotidien.

Mais, pour ses anciens compagnons de l’Action française, Georges Valois devenait ainsi un gêneur et même un traître, dont il fallait au plus vite ruiner l’influence. En décembre 1925, les camelots du roi réussirent à interrompre une réunion du Faisceau. Un peu plus tard, les militants de Valois se vengèrent en organisant une « expédition » dans les locaux de l’Action française. Le quotidien de Maurras déclencha une très violente campagne contre Valois, qu’il accusait d’être en rapport avec la police, d’avoir volé les listes d’adresses de l’Action française au profit de son mouvement, d’avoir indûment conservé la Nouvelle librairie nationale, d’émarger aux fonds secrets, et enfin d’être à la solde d’un gouvernement étranger, le gouvernement italien.

Après une année de polémiques, Valois intenta un procès à l’Action française. Ce fut l’un des plus importants procès de presse de cette époque : le compte-rendu des débats, réuni en volume, remplit plus de six cents pages. On entendit successivement les témoins de l’Action française et ceux de Valois. Rien n’est plus pénible que les querelles entre dissidents et fidèles d’un même mouvement, quel qu’il soit. De part et d’autre, les années de fraternité, de luttes communes pour un même idéal, sont oubliées : les dissentiments du présent suffisent à effacer les anciennes amitiés. Il en fut naturellement ainsi au procès Valois-Action française.

Nous n’évoquerons pas ici les discussions des débats, concernant mille et un détails de la vie du journal et du mouvement de Maurras. Nous dirons seulement que le compte-rendu du procès prouve que la querelle relevait davantage de l’affrontement des caractères que des divergences intellectuelles.

Les dirigeants de l’Action française insistèrent avant tout sur le « reniement » de Georges Valois, qui traitait Charles Maurras de « misérable » après l’avoir porté aux nues. L’un des avocats de l’Action française, Marie de Roux, donna lecture d’un hommage de Valois destiné à un ouvrage collectif, dans lequel le futur chef du Faisceau écrivait notamment :

« Maurras possède le don total du commandement. Ce n’est pas seulement ce don qui fait plier les volontés sous un ordre et les entraîne malgré ce mouvement secret de l’âme qui se rebelle toujours un peu au moment où le corps subit l’ordre d’une autre volonté. Le commandement de Maurras entraîne l’adhésion entière de l’âme ; il persuade et conquiert. L’homme qui s’y conforme n’a pas le sentiment d’être contraint, ni de subir une volonté qui le dépasse ; il se sent libre ; il adhère ; le mouvement où il est appelé est celui auquel le porte une décision de sa propre volonté. Il y a deux puissances de commandement : l’une qui courbe les volontés, l’autre qui les élève, les associe et les entraîne. C’est celle-ci que possède Maurras. Vous savez que c’est la plus rare, la plus grande et la plus heureuse » (17).

Celui qui avait écrit ces lignes avait-il vraiment commis les vilenies que lui reprochait l’Action française ? À distance, l’attitude de Valois ne semble pas justifier ce qu’en disaient ses anciens compagnons. Il avait tenté d’agir selon la ligne qui lui semblait la plus efficace ; Maurras ne l’avait pas approuvé, il avait repris sa liberté. Avait-il vraiment utilisé, pour sa nouvelle entreprise, les listes de l’Action française ? C’est assez plausible mais n’était-ce pas jusqu’à un certain point son droit, s’il estimait que Maurras ne tenait pas ses promesses et qu’il fallait le faire comprendre à ses militants ? L’affaire de la Nouvelle librairie nationale était complexe : Valois y tenait ses fonctions de l’Action française, mais il avait beaucoup fait pour la développer, et il était excusable de considérer que cette entreprise d’édition était plus ou moins devenue sienne. Quant aux accusations les plus graves - l’émargement aux fonds secrets, l’appartenance à la police et les subventions du gouvernement italien - l’Action française faisait état d’indices et de soupçons, plutôt que de preuves. On constatait que l’action de Valois devenu dissident de l’Action française divisait les forces nationalistes, on en concluait qu’elle devait avoir l’appui de la police politique ; celle-ci se réjouissait certainement de cet état de choses, mais cela ne suffisait pas à prouver qu’elle l’eût suscité. De même, les fonds relativement importants dont disposait Georges Valois pouvaient provenir aussi bien de capitalistes, désirant dans certains cas garder l’anonymat, que des fonds secrets. Les subventions du gouvernement italien étaient une autre hypothèse : Valois avait été reçu par Mussolini, il connaissait certaines personnalités du fascisme italien ; cela permettait des suppositions, et rien de plus.

Sans doute était-il gênant, pour Georges Valois, d’entendre rappeler l’éloge qu’il avait fait de l’homme qu’il traitait désormais de « misérable ». Mais on assistait, dans l’autre camp, à un phénomène analogue. Si Valois n’était plus pour Maurras, depuis la fondation du Faisceau, que « la bourrique Gressent, dit Valois » ou « Valois de la rue des Saussaies », il avait été tout autre chose peu de temps auparavant. Le 12 octobre 1925, Maurras, annonçant à ses lecteurs la fondation du Nouveau Siècle, s’exprimait en ces termes :

« Je n’ai pas la prétention d’analyser la grande œuvre de spéculation et d’étude que Valois accomplit dans les vingt ans de sa collaboration à l’Action française. Les résultats en sont vivants, brillants, et ainsi assez éloquents ! de la librairie restaurée et développée à ces livres comme Le Cheval de Troie, confirmant et commentant des actes de guerre ; des admirables entreprises de paix telles que les Semaines et les États généraux à ces pénétrantes et décisives analyses de la situation financière qui ont abouti à la Ligue du franc-or, et aux ridicules poursuites de M. Caillaux. Georges Valois, menant de front la pensée et l’action avec la même ardeur dévorante et le même bonheur, a rendu à la cause nationale et royale de tels services qu’il devient presque oiseux de les rappeler ».

La déviation mussolinienne

Valois sortit vainqueur de sa lutte judiciaire contre l’Action française. Les membres du comité directeur du mouvement qu’il avait poursuivis furent condamnés à de fortes amendes. Mais cette victoire judiciaire ne fut pas suivie d’une victoire politique.

À sa fondation, le Faisceau avait recruté un nombre important d’adhérents, et le journal Le Nouveau Siècle avait obtenu des collaborations assez brillantes. Mais ni le nouveau parti, ni le nouveau journal ne purent s’imposer de façon durable. En 1927, le Faisceau déclinait rapidement ; le Nouveau Siècle quotidien redevenait hebdomadaire, et disparut l’année suivante. Cet échec avait plusieurs causes. La violente campagne de l’Action française contre Valois impressionnait vivement les sympathisants de. celle-ci et l’ensemble des « nationaux ». Le style para-militaire, l’uniforme que Valois imposait à ses militants paraissaient ridicules à beaucoup de gens. D’autre part, l’opinion publique se méfiait d’un mouvement s’inspirant trop directement d’un régime politique étranger. Les bailleurs de fonds du mouvement et du journal s’en rendirent compte, et coupèrent les vivres à Valois. Celui-ci fut bientôt mis en accusation par certaines personnalités du mouvement : né d’une dissidence, le Faisceau eut lui-même ses dissidents, entraînés par l’un des fondateurs du mouvement, Philippe Lamour Valois restait avec quelques milliers de partisans ; ceux-ci se séparèrent finalement de lui, pour former un Parti fasciste révolutionnaire, dont l’existence ne fut pas moins éphémère que celle du Faisceau.

Valois s’était efforcé de rompre avec les schémas idéologiques de l’Action française, aussitôt après l’avoir quittée. Férocement antisémite au début de son action, il estimait en 1926 que la rénovation économique et sociale qu’il appelait de ses vœux ne pouvait aboutir sans la participation des Juifs :

« Supposez que les Juifs entrent dans ce prodigieux mouvement de rénovation de l’économie moderne, et vous vous rendrez compte qu’ils y joueront un rôle de premier ordre, et qu’ils hâteront l’avènement du monde nouveau. « À cause de leur appétit révolutionnaire. À cause également de vertus qui sont les leurs, et qui s’exercent avec le plus grand fruit dans une nation sachant les utiliser. « En premier lieu, la vertu de justice. Il est connu dans le monde entier que les Juifs ont un sentiment de la justice extraordinairement fort. « C’est ce sentiment de la justice qui les portait vers le socialisme. Faites que ce sentiment s’exerce vers le fascisme, qui, parallèlement au catholicisme, aura une action sociale intense, et vous donnerez un élément extraordinaire à la vie juive » (18).

Cet appel à la compréhension des « fascistes » envers les Juifs ne pouvait évidemment que déconcerter les anciens militants d’Action française que Valois avait groupés dans le Faisceau. D’autant plus qu’à cette ouverture envers Israël, Valois ajoutait quelques mois plus tard un renoncement à l’idéal monarchique au profit de la République :

« Nous avons tous au Faisceau le grand sentiment de 1789, la grande idée de la Révolution française et que résume le mot de la carrière ouverte aux talents. C’est-à-dire aux possibilités d’accession de tous aux charges publiques. Nous sommes ennemis de tout pouvoir qui fermerait ses propres avenues à certaines catégories de citoyens. Là-dessus nous avons tous la fibre républicaine » (19).

Regrettant de plus en plus d’avoir fait trop de concessions au capitalisme et à la bourgeoisie, Valois se montrait décidé à rompre avec la droite :

« Nous ne sommes ni à droite ni à gauche. Nous ne sommes pas pour l’autorité contre la liberté. Nous sommes pour une autorité souveraine forte et pour une liberté non moins forte. Pour un État fortement constitué et pour une représentation nouvelle régionale, syndicale, corporative. « Ni à gauche ni à droite. Et voulez-vous me laisser vous dire que nous ne voyons à droite aucun groupe, aucun homme capable de faire le salut du pays. Et que nous en voyons parmi les radicaux, les radicaux-socialistes et même chez les socialistes, mais que ceux-ci sont désaxés par des idées absurdes » (20).

Puis, non content d’avoir répudié le monde de droite, Georges Valois renoncera également à n’être « ni à droite, ni à gauche ». Il constatera en effet que ce dépassement des vieilles options classiques de la vie politique française et européenne est au-dessus de ses forces. Il avait espéré que le fascisme était précisément la solution pour un tel dépassement. Ce qu’il apprend de l’évolution italienne le déçoit profondément. Mussolini, estime-t-il, s’oriente maintenant « dans le sens réactionnaire ». Il voudrait que le fascisme français « puisse l’emporter sur un fascisme italien dévié, et que l’Europe tienne ce fascisme français pour le type du fascisme ». Mais il ne tardera pas à s’apercevoir qu’aucun avenir politique n’est possible pour ses amis et lui s’ils gardent les vocables de fascisme et de Faisceau, définitivement associés par les partis de gauche à la pire réaction.

L’échec de la République syndicale

Ce n’est donc pas pour le maintien d’une politique « ni à droite, ni à gauche » mais bien pour un retour à la gauche que Georges Valois va se décider. En mars 1928, à l’heure où Le Nouveau Siècle disparaît, Valois publie un Manifeste pour la République syndicale. Tout en affirmant que « le fascisme a accompli en France sa mission historique, qui était de disloquer les vieilles formations, de provoquer, au-delà des vieux partis, le rassemblement des équipes de l’avenir », l’ancien leader du Faisceau opte maintenant pour un État gouverné par les syndicats. En quoi il ne fait que revenir aux aspirations de sa jeunesse, d’avant la rencontre de Maurras.

La publication du Manifeste est rapidement suivi de la fondation par Valois et son fidèle ami Jacques Arthuys du Parti républicain syndicaliste. Parmi les personnalités qui donnent leur adhésion à cette nouvelle formation figure notamment René Capitant, futur ministre du général de Gaulle. Mais, de l’aveu même de Valois, ce parti ne sera en fait qu’un groupe d’études, sans influence comparable à celle du Faisceau.

Dès lors, Valois s’exprimera surtout à travers plusieurs revues, tout en continuant à publier des essais sur la conjoncture politique de son temps. Les revues qu’il suscitera s’appelleront Les Cahiers bleus, puis Les Chantiers coopératifs, et enfin Le Nouvel Âge. Parmi leurs collaborateurs, on doit citer notamment Pietro Nenni, le grand leader socialiste italien, Pierre Mendès-France, Bertrand de Jouvenel et Jean Luchaire : quatre noms qui suffisent à situer l’importance de l’action intellectuelle de Georges Valois dans les années de l’entre-deux-guerres.

Dans son étude sur Valois, M. Yves Guchet (21) remarque le caractère quasi-prophétique de certaines intuitions de ce dernier. C’est ainsi que dans Un nouvel âge de l’Humanité, Valois amorce une analyse de l’évolution du capitalisme que l’on trouvera plus tard chez des économistes américains tels que Berle et Means, et aussi Galbraith, dans Le nouvel état industriel. Mais le drame de Georges Valois est d’arriver trop tôt, dans un monde où certaines vérités ne seront finalement comprises ou reconnues qu’après de terribles orages.

Vers 1935, Valois tente de se faire réintégrer dans les formations de gauche. Il n’y parvient pas. Si l’Action française ne lui pardonne pas d’avoir renié la monarchie et d’être retourné au socialisme, les partis de gauche, eux, refusent d’oublier son passé. C’est en vain qu’il écrit à Marceau Pivert pour solliciter son admission au Parti socialiste : d’abord acceptée, sa demande sera finalement rejetée par les hautes instances de ce parti.

En fait, l’ancien fondateur du Faisceau est désormais condamné à l’hétérodoxie par rapport aux formations politiques classiques. Son anti-étatisme, notamment, le rend suspect aux animateurs du Front populaire. Valois pense comme eux que le communisme est intellectuellement et politiquement supérieur au fascisme, mais il estime que, tout comme les dirigeants italiens, les dirigeants soviétiques ont trahi leur idéal initial en construisant une société socialiste privée de liberté.

Brouillé avec la majorité de ses anciens amis - ceux de gauche comme ceux de droite - Valois épuise son énergie dans de nombreux procès contre les uns et les autres, tandis que son audience devient de plus en plus confidentielle. Qui plus est, sa pensée devient parfois contradictoire : ancien apologiste des vertus viriles suscitées par la guerre, il se proclame soudain pacifiste devant l’absurdité d’un éventuel conflit mondial, tout en reprochant à Léon Blum de ne pas soutenir militairement l’Espagne républicaine...

Georges Valois appartenait à cette catégorie d’esprits qui ne parviennent pas à trouver le système politique de leurs vœux, et dont le destin est d’être déçus par ce qui les a passionné. Mais c’était aussi, de toute évidence, un homme qui ne se résignait pas à la division de l’esprit public par les notions de droite et de gauche. Ce qui l’avait séduit avant tout, dans l’idée monarchique, c’était la possibilité de mettre un terme à cette division, d’unir les meilleurs éléments de tous les partis, de toutes les classes sociales, dans un idéal positif, à la fois national et social. Ayant constaté que l’idée monarchique se heurtait à trop d’incompréhension ou de méfiance dans certains milieux, et notamment dans le milieu ouvrier, il pensa que l’idée fasciste, étant une idée neuve et moderne, permettrait plus aisément l’union des meilleurs. Sans doute se remit-il mal de cette double déception.

Cette volonté d’unir les meilleures forces nationales existait aussi chez Charles Maurras, mais de manière plus théorique, plus abstraite. Convaincu d’avoir raison, d’avoir trouvé la doctrine la plus conforme à l’intérêt national, il se Préoccupait au fond assez peu de l’hostilité qu’il suscitait dans de très vastes secteurs de l’opinion française. Valois, au contraire, ne pouvait supporter la pensée que les meilleurs éléments populaires fussent hostiles à son propre combat politique. S’il en était ainsi, pensait-il, c’est qu’il y avait dans la doctrine elle-même quelque chose qui devait être modifié. Telle est l’explication psychologique de ses positions successives. En un mot, Valois voulait agir sur les masses, ce qui apparaissait à Maurras comme une tendance démagogique.

serant10.jpgAu moment où il fonda son mouvement, Valois était persuadé que l’Action française n’en avait plus pour bien longtemps. Ce fut le contraire : l’Action française, forte de sa doctrine et de son organisation, survécut largement au Faisceau. On peut conclure de cette erreur d’appréciation que les qualités proprement politiques de Valois étaient médiocres, et que l’Action française n’eut pas à regretter beaucoup son départ.

Et cependant, Valois voyait juste lorsqu’il se préoccupait d’accorder les idées politiques de Maurras avec les grands courants sociaux du début du siècle, et de compléter l’action politique par l’action sociale. Sans doute était-il très difficile de réunir, au sein d’un même mouvement, des éléments de l’aristocratie et de la bourgeoisie traditionaliste et des éléments du syndicalisme ouvrier et paysan : mais c’était bien dans cette direction qu’il fallait tenter d’agir. Maurras éprouvait peu d’intérêt pour les questions économiques et sociales : sa formule : « L’économique dépend du politique », lui servait d’alibi pour les ignorer. Mais un mouvement politique du vingtième siècle ne pouvait pas impunément négliger les grandes luttes sociales ; s’il les négligeait, il limitait son influence à certains milieux, consommant ainsi cette division de 1a nation qu’il réprouvait en principe.

Maurras, qui avait montré de la compréhension, de la sympathie même, pour l’action des syndicats vers 1914, semble s’y être beaucoup moins intéressé par la suite. Dans le monde ouvrier français et européen, l’influence de Marx l’avait emporté sur celle de Proudhon et de Sorel ; et la politisation du mouvement syndical se poursuivait clans le sens que l’on sait. Pour Maurras, le devoir était de combattre cette mauvaise politique à laquelle adhérait plus ou moins ardemment la classe ouvrière ; la défaite des partis de gauche permettrait la libération du syndicalisme français. Le monde ouvrier ne pouvait entendre un tel langage : il assimilait le combat contre les partis de gauche à un combat contre la classe ouvrière en elle-même. Telle était l’équivoque dont Valois, après Sorel, avait senti le danger, et qu’il avait voulu à tout prix éviter. Les succès de. ses conférences, les recherches du Cercle Proudhon, prouvaient que quelque chose dans ce sens était possible. En admettant que Maurras ait eu de bonnes raisons de prendre ses distances vis-à-vis de Valois, il commit probablement une erreur en réduisant la place des questions économiques et sociales dans son journal et dans la vie de son mouvement : le drame de l’Action française, comme des autres ligues nationalistes, fut de ne pas avoir de doctrine sociale précise à opposer aux campagnes du Front populaire.

Au lendemain de la Libération, on apprit que Georges Valois, arrêté par les Allemands pour son action dans un mouvement de résistance, était mort au camp de Bergen-Belsen. Son ami Jacques Arthuys, co-fondateur du Faisceau, ayant également choisi la Résistance, était lui aussi mort en déportation. Bientôt, l’un des premiers militants du Faisceau, fondateur en 193 ? d’un second mouvement fasciste français, Le Francisme, Marcel Bucard, tombait, lui, sous les balles de l’épuration après avoir été condamné pour collaboration. Le fascisme français dans son ensemble était assimilé à l’ « intelligence avec l’ennemi », et le mouvement de Georges Valois était oublié : Arthuys et lui-même furent de ces morts de la Résistance dont les partis politiques victorieux préféraient ne pas parler, puisqu’ils n’avaient pas été des leurs.

Paul Sérant in Les dissidents de l’Action française, Copernic, 1978, chapitre I, pp. 13-36.


Notes

1 - G. Valois, Basile ou la calomnie de la politique, Librairie Valois, 1927, introduction, p. X. 2 - C. Maurras, L’Action française, 1er et 4 août 1908. 3 - Cf. P. Andreu, Notre Maître, M. Sorel, Grasset, 1953, p. 325. 4 - G. Valois, Histoire et philosophie sociale – La révolution sociale ou le roi, Nouvelle librairie nationale, 1924, p. 288. 5 - Op. cit., p. 292. 6 - Ibid., p. 295. 7 - Ibid., p. 302. 8 - Ibid., pp. 307-308. 9 - Ibid., p. 313. 10 - Ibid., p. 356. 11 - Ibid., p. 360. 12 - Ibid., pp. 365-366. 13 - Cf. P. Andreu, Notre Maître, M. Sorel, pp. 327-328. 14 - G. Valois, Basile ou la calomnie de la politique, introduction, p. XVII-XVIII. 15 - Op. cit., p. XX. 16 - Ibid., p. XXX. 17 - Charles Maurras par ses contemporains, Nouvelle librairie nationale, 1919, pp. 43-44. 18 - Le Nouveau Siècle, 25 février 1926. 19 - Ibid., 21 juin 1926. 20 - Ibid., 28 novembre 1926. 21 - Y. Guchet, Georges Valois – L’Action française, le Faisceau, la République syndicale, éd. Albatros, 1975, pp. 206-207.

dimanche, 05 décembre 2010

Otto Dix, un regard sur le siècle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

Otto Dix, un regard sur le siècle

Guillaume HIEMET

Le centième anniversaire de la naissance d'Otto Dix a été l'occasion pour le public allemand de découvrir la richesse de la production d'un peintre largement méconnu. Plus de 350 œuvres ont en effet été exposées jusqu'au 3 novembre 1991, dans la galerie de la ville de Stuttgart, puis, à partir du 29 novembre, à la Nationalgalerie de Berlin. Peu connu en France, classé par les critiques d'art parmi les représentants de la Nouvelle Objectivité (Neue Sachlichkeit), catalogué comme il se doit, Otto Dix a toujours bénéficié de l'indulgence de la critique pour un peintre qui avait dénoncé les horreurs de la première guerre mondiale, figure de proue de l'art nouveau dans l'entre-deux guerres, et ce, en dépit de son incapacité à suivre la mode de l'abstraction à tout crin dans l'après-guerre. Quelques tableaux servent de support à des reproductions indéfiniment répétées et à des jugements qui ont pris valeur de dogmes pour la compréhension de l'œuvre. A l'encontre de ces parti-pris, les expositions de 1991 permettent aux spectateurs de se faire une idée infiniment plus large et plus juste des thèmes que développent la production de Dix.

 

Dix est né le décembre 1891 à Untermhaus, à proximité de Gera, d'un père, ouvrier de fonderie. Un milieu modeste, ouvert cependant aux préoccupations de l'art; sa mère rédigeait des poèmes et c'est auprès de son cousin peintre Fritz Amann que se dessina sa vocation artistique. De 1909 à 1914, il étudie à l'école des Arts Décoratifs de Dresde. Ses premiers autoportraits, à l'exemple de l'Autoportrait avec oeillet  de 1913, sont clairement inspirés de la peinture allemande du seizième siècle à laquelle il vouera toujours une sincère admiration. Ces tableaux de jeunesse témoignent déjà d'un pluralisme de styles, caractérisé par la volonté d'intégrer des approches diverses, par la curiosité de l'essai qui restera une constante dans son œuvre.

 

La guerre: un nouveau départ

 

otto.jpgEn 1914, Dix s'engageait en tant que volontaire dans l'armée. L'expérience devait, comme toute sa génération, profondément le marquer. S'il est une habitude de dépeindre Dix comme un pacifiste, son journal de guerre et sa correspondance montrent un caractère sensiblement différent. La guerre fut perçue par Dix, comme par beaucoup d'autres jeunes gens en Allemagne, comme l'offre d'un nouveau départ, d'une coupure radicale avec ce qui était ressenti comme la pesanteur de l'époque wilhelminienne, sa mesquinerie, son étroitesse, sa provincialité qu'une certaine littérature a si bien décrites. Elle annonçait la fin inévitable d'une époque. Les premiers combats, l'ampleur des destructions devaient, bien sûr, limiter l'enthousiasme des départs, mais le gigantisme des cataclysmes que réservait la guerre, n'en présentait pas moins quelque chose de fascinant. Le pacifiste Dix se rapproche par bien des aspects du Jünger des journaux de guerre. L'épreuve de la guerre pour Ernst Jünger trempe de nouveaux types d'hommes dans le monde d'orages et d'acier qu'offrent les combats dans les tranchées.

 

Avec nietzsche: “oui” aux phénomènes

 

Une philosophie nietzschéenne se dégage, “la seule et véritable philosophie” selon Dix, qui, en 1912, avait notamment élaboré un buste en platre en l'honneur du philosophe de la volonté de puissance. Des écrits de Nietzsche, Dix retient l'idée d'une affirmation totale de la vie en vertu de laquelle l'homme aurait la possibilité de se forger des expériences à sa propre mesure. Ainsi, il note: «Il faut pouvoir dire “oui” aux phénomènes humains qui existeront toujours. C'est dans les situations exceptionnelles que l'homme se montre dans toute sa grandeur, mais aussi dans toute sa soumission, son animalité». C'est cette même réflexion qui l'incite à scruter le champ de bataille, qui le pousse à observer de ses propres yeux, si importants pour le peintre, les feux des explosions, les couleurs des abris, des tranchées, le visage de la mort, les corps déchiquetés.

 

De 1915 à 1918, il tient une chronique des événements: ce sont des croquis dessinés sur des cartes postales, visibles aujourd'hui à Stuttgart, qui ramassent de façon simple et particulièrement intense l'univers du front. Le regard du sous-officier Dix a choisi de tout enregistrer, de ne jamais détourner le regard puis de tout montrer dans sa violence, sa nudité. Les notes du journal de guerre montrent crûment sa volonté de considérer froidement, insatiablement le monde autour de lui. Ainsi, en marche vers les premières lignes: «Tout à fait devant, arrivé devant, on n'avait plus peur du tout. Tout ça, ce sont des phénomènes que je voulais vivre à tout prix. Je voulais voir aussi un type tomber tout à côté de moi, et fini, la balle le touche au milieu. C'est tout ça que je voulais vivre de près. C'est ça que je voulais». Dans cette perception de la réalite, Dix souligne le jeu des forces de destruction, les peintures ne semblent plus obéir à aucune règle de composition si ce n'est les repères que forment les puissances de feu, les balles traçantes, les grenades. Tout dans la technique du dessin sert, contribue vivement à cette impression d'éclatement, les traits lourds brusquement interrompus, hachures des couleurs, parfois plaquées. Le regard est obnubilé par la perception d'ensemble, la brutalité des attaques, vision cauchemardesque qui emporte tout.

 

La dissolution de toute référence stable

 

Le réalisme de ces années 1917-1918 qui caractérise ces dessins et gouaches est dominé par cette absence d'unité, l'artiste a jeté sur la toile tel un forcené la violence de l'époque, la dissolution de toute reférence stable. L'abstraction dit assez cette incapacité de se détourner des éclairs de feu et de se rapprocher du détail. Cette peinture permettra pareillement à Dix de conjurer peu à peu les souvenirs de tranchées. Ce rôle de catharsis, cette lente maturation s'est faite dans son esprit pendant les années qui suivent la guerre. L'évolution est sensible. Ce sont en premier, le cycles des gravures intitulé la Guerre qu'il réalise en 1924 puis les grandes compositions des années 1929-1936. Les gravures presentent un nouveau visage de la guerre, Dix s'attarde à représenter le corps des blessés, les détails de leurs souffrances. Ici, le terme d'objectivité est peut-être le plus approprié, il n'est pas sans évoquer toutefois les descriptions anatomiques du poète et médecin Gottfried Benn. Le soin ici de l'extrême précision, de la netteté du rendu prend chez ces guerriers mourants, mutilés ou dans la description de la décomposition des corps une force incroyable.

 

Les souvenirs de guerre ne se laissaient pas oublier aisément, il avouait lui-même: «pendant de longues années, j'ai rêvé sans cesse que j'étais obligé de ramper pour traverser des maisons détruites, et des couloirs où je pouvais à peine avancer». Dans les grandes toiles qu'il a peintes après 1929, il semble que Dix soit venu à bout des stigmates, entaillés dans sa mémoire, que lui avaient laissées la guerre, ou tout du moins que l'unité ait pu se faire dans son esprit. La manière dont l'art offre une issue aux troubles des passions, ce rôle pacificateur, il l'évoque à plusieurs moments dans des entretiens à la fin de sa vie. Dans ces toiles grands-formats qui exposent maintenant, l'univers de la guerre, se conjuguent une extrême précision et l'entrée dans le mythe que renforce encore la référence aux peintres allemands du Moyen-Age. Dix a choisi pour la plus importante de ces oeuvres, un tryptique, La Guerre, la forme du retable. Le renvoi au retable d'Isenheim de Mathias Grünewald, étrange et impressionnant polyptique qui dans la succession de ses volets propose une ascension vers la clarté, l'aura de la Nativité et de la Résurrection, est explicite. En comparaison, le triptyque de Dix semble une tragique redite du premier volet de Grünewald, La tentation de Saint Antoine. Ici, l'univers apocalyptique de la guerre, la mêlée de corps sanglants, les dévastations de villages minés par les obus, correspondent aux visions délirantes de monstres horribles et déchainés, aux corps repoussants, aux gueules immondes mues par la bestialité de la destruction chez Grünewald.

 

des tranchées aux marges de la société

 

L'impossibilité de s'élever vers la clarté, l'éternel recommencement du cycle de destructions est accentué par l'anéantissement du pont qui ferme toute axe de fuite et le dérisoire cadavre du soldat planté sur l'arche de ce pont qui forme une courbe dont l'index tendu pointe en direction du sol. Le cycle du jour est rythmé par la marche d'une colonne dans les brouillards de l'aube, le paroxysme des combats du jour, et le calme, la torpeur du sommeil, les corps allongés dans leur abris que montre la predelle (le socle du tableau). L'effet mythique est encore accentué par la technique qu'utilise Dix pour ces toiles: la superposition de plusieurs couches de glacis transparents, technique empruntée aux primitifs allemands, qui nécessite de nombreuses esquisses et qui confère une perfection, une exactitude extraordinaire aux scènes représentées. Ainsi dans le tableau de 1936, la mort semble être de tout temps, la destinée des terres dévastées de Flandre  —“en Flandre, la mort chevauche...”, selon les paroles d'un air de 1917—,  et le combat dans son immensité parvient à une dimension cosmique.

 

Sous la République de Weimar, Dix conserve en grande partie le style éclaté des peintures de guerre. Il demeure successivement à Dresde, Düsseldorf, Berlin puis à nouveau Dresde jusqu'en 1933. Les thèmes que traite Dix se laissent difficilement résumer: le regard froid des tranchées se tourne vers la société, une société caractérisée, disons-le, par ces marges. Dix est fasciné par le mauvais goût, la laideur, les situations macabres, grotesques. L'esprit du temps n'est pas étranger à cet envoûtement pour la sordidité, et souvent ses personnages tiennent la main aux héroïnes de l'opéra d'Alban Berg Lulu:  thèmes des bas-fonds de la littérature, aquarelles illustrants les amours vénales des marins, accumulation de crimes sadiques décrits avec la plus grande exactitude. Le cynisme hésite entre le sarcasme et l'ironie la moins voilée. L'atmosphère incite aux voluptés sommaires, comme disait un écrivain français. Une des figures qui apparaît le plus souvent et qui nous semble des plus caractéristiques, est celle du mutilé. La société weimarienne ne connaît pour Dix qu'estropiés, éclopés, que des bouts d'humanité, et tout donne à penser que ce qui est valable pour le physique l'est aussi pour le mental. Ainsi les cervelets découpés et asservis aux passions les plus vulgaires et les plus automatiques.

 

Déshumanisation, désarticulation, pessimisme

 

Otto_Dix.jpgUne des peintures les plus justement célèbres de Dix, la Rue de Prague  en 1920, fournit un parfait résumé des thèmes de l'époque. D'une manière particulièrement féroce, Dix place les corps désarticulés de deux infirmes à proximité des brillantes vitrines de cette rue commerçante de Dresde, dans lesquelles sont exposés les mannequins et autres bustes sans pattes. Le processus de déshumanisation est complet, les infirmes détraqués, derniers restes de l'humain trouvent leur exact répondant dans la vie des marionnettes. La composition du tableau  —huile et collage—  accentue d'autant plus la désarticulation des corps, la régression des mouvements et pensées humains à des processus mécaniques dont l'aboutissement symbolique est la prothèse. Nihilisme, pessimisme complet, dégoût et aversion affichée pour la société, il y a sans doute un peu de tout cela.

 

Bien des toiles de cette époque pourraient être interprétées comme une allégorie méchante et sarcastique de la phrase de Leibniz selon laquelle “nous sommes automates dans la plus grande partie de nos actions”. L'absence de plan fixe, de point d'appui suggère cette dégringolade vers l'inhumain. Le rapprochement de certains tableaux de cette époque  —Les invalides de guerre, 1920—  avec les caricatures de George Grosz est évident, mais celui-ci trouve bientôt ses limites, car très vite il apparaît que si la source de tout mal pour Grosz se situe dans la rivalité entre classes, pour Dix, le mal est beaucoup plus profond. La société tout entière se vend, tel est le thème du grand triptyque de 1927-1928, La grande ville, misère et concupiscence d'une part, apparence de richesse, faste et vénalité de l'autre. Rien ne rachète rien. On a souvent reproché à Dix son attirance pour la laideur, la déchéance physique et la violence avec laquelle il traite ses sujets. La volonté de provocation rentre directement en ligne de compte, mais plus profondément, ces thèmes se présentaient comme un renouvellement de la peinture. Il avouait d'ailleurs: “j'ai eu le sentiment, en voyant les tableaux peints jusque là, qu'un côté de la réalité n'était pas encore représenté, à savoir la laideur”.

 

Haut-le-cœur, immuables laideurs

 

Si l'impressionnisme a porté le réalisme jusqu'à son accomplissement ce qui n'était pas sans signifier l'épuisement de ces ressources, les tentatives des années vingt restent exemplaires. Le beau classique s'était mû en un affadissement de la réalité, la perte de la force inhérente à la peinture ne pouvait être contrecarrée d'une part, que par une abstraction de plus en plus poussée à laquelle tend toute la peinture moderne, de l'autre, par la confrontation avec un réel non encore édulcoré. Naturellement, de la façon dont Dix, animé d'une sourde révolte, tire sur les conformismes du temps, on comprend le haut-le-cœur des contemporains devant ces corps qui semblent jouir du seul privilège de leur immuable laideur. Aujourd'hui cependant, le spectateur n'est pas sans sourire à cette atmosphère encanaillée des pièces de Brecht, aux voix légèrement discordantes, le parler-peuple de l'Opéra de Quatre-sous. Il en est de même de la caricature de la société de Weimar, attaque frontale contre les vices et vertus de l'époque à laquelle procède méthodiquement Dix, époque de vieux, de nus grossiers, de mères maquerelles, de promenades dominicales pour employés de commerce.

 

La toile Les Amants inégaux  de 1925, dont il existe également une étude à l'aquarelle, condense particulièrement les obsessions chères à Dix. Un vieillard essaie péniblement d'étreindre une jeune femme aux formes imposantes qui se tient sur ses genoux. Le caractère vain du désir, l'intrusion de la mort dans les jeux de l'amour que symbolisent les longues mains décharnées du vieillard forment une danse étonnante de l'aplomb et de la lassitude, de la force charnelle et de sa disparition.

 

les révélations des autoportraits

 

Dix a tout au long de sa vie produit un grand nombre de portraits. L'exposition de Stuttgart en 1991 a montré le fabuleux coloriste qu'il fut. Il affectionne les rouges sang, le fard blanc qui donne aux visages quelque chose du masque, de tendu et de crispé, et les variations de noir et de marron que fournit la fourrure de Martha Dix dans le magnifique portrait de 1923. Selon l'aveu même du peintre, l'accentuation des traits jusqu'à la caricature ne peut que dévoiler l'âme du personnage et la résume d'une façon à peu près infaillible. Il n'est pas interdit de retourner cette remarque à Dix lui même, car il n'est pas sans se projetter dans sa peinture et tout d'abord, dans les nombreux autoportraits que nous disposons de lui. L'esprit qui anime les peintures de l'entre-deux guerres se retrouvent ici aisément: l'Autoportrait avec cigarettes de 1922, une gravure, partage la brutalité des personnages qu'il met en scène. Dix se présente les cheveux gominés, les sourcils froncés, le front décidément obtus, la machoire carrée, bref, une aimable silhouette de brute épaisse dont seul la finesse du nez trahit des instincts plus fins que viennent encore démentir la clope posée entre les lèvres serrées. Qui pourrait nier que ces autoportraits fournissent des équivalences assez exactes de la rudesse et de la brutalite de la peinture de Dix?

 

Art dégénéré ou retour du primitivisme allemand?

 

A partir de 1927, Dix fut nomme professeur à 1'Académie des Beaux-Arts de Dresde. En 1933, quelques temps après 1'arrivée au pouvoir du nouveau régime, il est licencié. Dix représentait pour le régime nazi le prototype de l'art au service de la décadence, et des œuvres tels que Tranchées, Invalides de guerre, eurent l'honneur de figurer dans l'exposition itinérante ”d'art dégenéré” organisée par la Propagande du Reich en 1937, plaçant Dix dans une situation délicate. Il est clair que Dix n'a jamais temoigné un grand intérêt pour la chose politique, refusant toute adhésion partisane avec force sarcasmes. Mais, rétrospectivement, ces jugements apparaissent d'autant plus absurdes que la manière de Dix depuis la fin des années vingt avait déjà considérablement évoluée et témoignait d'un très grand intérêt pour la technique des primitifs allemands que le régime vantait d'autre part. Situation ô combien absurde, mais qui devait grever toute la production des années trente.

 

En 1936, 1'insécurité présente en Saxe l'incite à s'installer avec sa famille sur les bords du lac de Constance dans la bourgade de Hemmenofen. A l'exil intérieur dans lequel il vit, correspond une production toute entière consacrée aux paysages et aux thèmes religieux. Tous ces tableaux montrent une maîtrise peu commune, l'utilisation des couches de glacis superposés, fidèle aux primitifs allemands du seizième, permet une extraordinaire précision et la description du moindre détail. Si Dix a pu dire qu'il avait été condamné au paysage qui, certes, ne correspondait pas au premier mouvement de son âme, on reste néanmoins émerveillé par certaines de ses compositions. Randegg sous la neige avec vol de corbeaux  de 1935: la nuit de 1'hiver enclot le village recouvert d'une épaisse couche de neige, les arbres qui se dressent dénudés évoquent les tableaux de Caspar David Friedrich, unité que seule perçoit le regard du peintre. Loin de se contenter d'un plat réalisme, cet ensemble n'a jamais rendu aussi finement la présence du peintre, léger recul et participation tout à la fois à l'univers qui l'entoure.

 

Devant les gribouilleurs et autres tâcherons copieurs de la manière ancienne aux ordres des nouveaux impératifs, et dans une période où l'humour est si absent des œuvres de Dix, celui-ci semble dire magistral: “Tas de boeufs, vous voulez du primitif, en voilà!”. Art de plus en plus contraint à mesure que passaient les années, mais au moyen duquel Dix exposait une facette majeure de sa personnalité. Dès 1944, il éprouvait le besoin d'en finir avec cette technique minutieuse, exigeante qui bridait son besoin de créativité. La dynamique formelle reprend vivement le dessus dans ses Arbres en Automne de 1945 où les couleurs explosent à nouveau triomphantes. Les peintures de la fin de sa vie renouent avec la grossièreté des traits des œuvres des années vingt.

 

Peu reconnu par la critique alors que le combat pour l'art abstrait battait son plein, Dix est resté, dans ces années, en marge des nouveaux courants artistiques auxquels il n'éprouvait aucunement le besoin d'adhérer. Les thèmes religieux, ou plutôt une imagerie de la bible qu'il essaie étrangement de concilier avec la philosophie de Nietzsche, tiennent dans cette période un rôle fondamental. Sa peinture semble parvenir à une économie de moyens qui rend très émouvantes certaines de ses toiles  —Enfant assis, Enfant de réfugiés, 1952—, la prédisposition de Dix pour les couleurs n'a jamais été aussi présente, l'Autoportrait en prisonnier de guerre  de 1947 est organisé autour des taches de couleur, plaquées sur un personnage muet, vieilli, dont les traits se sont encore creusés. Après plusieurs années de vaches maigres, les honneurs des deux Allemagnes se succédèrent  —il resta toujours attaché à Dresde où il se déplaçait régulièrement . Atteint d'une première attaque en 1967 qui le laissa amoindri, il devait néanmoins poursuivre son travail jusqu'à sa mort deux ans plus tard. Un des ces derniers autoportraits, l'Artiste en tête de mort, montre le crâne du peintre ricanant ceint de la couronne de laurier, image troublante qui rejette au loin les nullissimes querelles entre art figuratif et art abstrait.

 

Guillaume HIEMET.

 

Les citations sont tirées de : Eva KARCHNER, Otto Dix 1891-1969, Sa vie, son œuvre, Benedikt Taschen, 1989.

mercredi, 01 décembre 2010

Elitevorming: Verdinaso en actuele koppeling

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Elitevorming: Verdinaso en actuele koppeling

 

Ex: http://www.kasper-gent.org/

Op donderdag 28/10 organiseerde KASPER een interne discussieavond. We bespraken onder andere het belang van praktische elitevorming vroeger en nu. Hieronder volgt een tekst die resultante is van de discussie.

In deze tekst zal het elitaire mensbeeld van het Verdinaso kort geschetst worden en zullen er nadien enkele actuele koppelingen gemaakt worden voor wat betreft de noodzaak aan elitevorming binnen ons eigen Volk. Het beeld van het Verdinaso op de mens zal geschetst worden aan de hand van twee concrete casussen: de D.M.O. en het vooropgestelde onderwijssysteem. Vanzelfsprekend dient er op gewezen te worden dat de analyse van het Verdinaso opgesteld werd in een tijdsgeest die niet de onze is.

 

Algemene introductie: het mensbeeld van het Verdinaso

Algemeen bekeken vertrekt het Verdinaso vanuit een negatieve mensvisie: de mens is van nature uit zelfzuchtig en egoïstisch. Wanneer iedereen zijn eigen zegje zou hebben in het bestuur van het land zal dit onvermijdelijk leiden tot wanorde en een onrechtvaardige maatschappij. Het Verdinaso heeft desgevolgend een aristocratische staatsvisie, het wil enkel en alleen de besten uit het volk aanspreken en richt zich niet tot de massa. Dit is volgens Van Severen de grote fout die andere Interbellum-bewegingen zoals het Waalse Rex en de Noord-Nederlandse N.S.B. maken: ze proberen eerst de massa te winnen om nadien de Nieuwe Orde te vestigen. Het Verdinaso pleit voor de omgekeerde weg, wat ook een logisch gevolg is van de negatieve mensvisie.

Voor het Verdinaso is het dan ook noodzakelijk dat de mens zijn democratische mentaliteit radicaal afwerpt en zich gaat gedragen naar het prototype van een goede soldaat: moed, gehoorzaamheid, tucht en trouw zijn de basisprincipes. Daarbij is er een driedeling merkbaar: onderaan het gehoorzame volk, daarboven de Dinaso elite en bovenaan de autoritaire Leider. Het is de vaste overtuiging van de Dinaso’s dat de Leider de Nieuwe Orde zal scheppen en handhaven, en elkeen moet dan ook onvoorwaardelijk gehoorzamen aan de wil van de Leider. Wie dit niet doet is zelfzuchtig, egoïstisch en democratisch en is dus mede een component van de verwerpelijke wanorde.

Dit werd onder andere duidelijk toen Van Severen zijn nieuwe en vernieuwende marsrichting afkondigde, waarbij het Groot-Nederlandisme vervangen werd door Heel-Nederlandisme en de aloude Rijks- en Imperiumgedachte. Op dit moment stapten verschillende mensen uit het Verdinaso, bijvoorbeeld Wies Moens, maar voor de overblijvende Dinaso’s (de grote meerderheid) was dit geen enkele probleem, rekening houdende met de zopas geschetste mensvisie.

In Hier Dinaso, 1933, staat bijvoorbeeld volgend citaat “Wat heeft een strijd als de onze aan meelopers? Laten zij liever hengelen gaan. Het Dinaso beproeft elk element in het vuur van gehoorzaamheid en tucht. Wie niet bestand is, mag terugkeren van waar hij gekomen is.”

De dood van Joris Van Severen, de Leider van het Verdinaso, betekende een ware slag voor de vereniging en zijn leden. Dit is natuurlijk logisch, dergelijke autoritaire bewegingen staan of vallen met hun Leider, en bij een onverwachte dood heeft de Leider nog geen opvolger voorzien.

 

Ter afsluiting van de inleiding een klein praktijkvoorbeeld m.b.t. vergaderingen:

Citaat uit Hier Dinaso over de besloten vergaderingen:  
Deze moeten aristocratisch zijn, zonder  1 enkel democratisch element. De Verbondsgroet moet gebracht worden als de Leiding binnenkomt en de Dinaso’s mogen niet staan zwaaien als grashalmen over en weer, niet kijken naar links en rechts en achterom en naar beneden en boven. Voor en na de rede zal ook een lied worden gezongen. Er mag ook geen discussiemoment achteraf zijn, dit is immers democratisch.”

 

De Dietsche Militanten Orde (D.M.O.)

De eliten der eliten mocht ook aansluiten bij de D.M.O, de privémilitie van het Verdinaso. De leden van de D.M.O. kregen een zeer harde militaire en intensieve opleiding. Ook moesten alle Dinaso’s, dus ook de leden van de D.M.O., veel oog hebben voor klederdracht en properheid. Terwijl de gewone beroepssoldaten er vaak slonzig bijliepen was het de plicht van elke D.M.O. militant om de aristocratie te vormen, en dus bijvoorbeeld elke dag zijn schoenen te poetsen na een lange marsdag doorheen de Dietse velden. Bij het Verdinaso gingen Geest en Stijl dus samen.

En citaat hierover uit Hier Dinaso:

“Omdat zij weten dat men geen volk uit de dood naar het leven stuurt, dat men geen Staat bouwt, zonder actie, de heroïsche actie van soldaten. De dienst in de DMO is alles behalve plezier. Dag- en nachtmarsen, slapen op strooi, spartaanse soberheid, altijd bereid zijn te marcheren. Waarheen? Dat weten zij niet. Met welke opdracht? Dat weten ze slechts op het gepaste ogenblik. En maand na maand werd de taak zwaarder en gevaarlijker. De dienst is iets geworden als legerdienst in een toestand van oorlogsgevaar. Vele militanten zijn getrouwd, vaders van een min of meer talrijk gezin; de meesten zijn arm. Zelf bekostigen zij hun uniform met de moeizaam gespaarde centen. Maar in allen leeft de geest van het heropstaande Dietsland, de geest van de heroïsche nieuwe Dietser. Want haar enige reden van bestaan is: Orde scheppen en Orde handhaven”.

De belangrijkste taak van de D.M.O. was het handhaven van de orde bij de openbare vergaderingen. Die impliceerde bijvoorbeeld knokpartijen met de communisten teneinde de vergaderingen mogelijk te maken.

Binnen de volledige Dinaso-denkwijze was het concept “lichaamscultuur” ook zeer belangrijk belangrijker. Een gezonde geest in een gezond lichaam vormt volgens de Dinaso de basis van het Volk. In deze context is het van belang om het gehele lichaam te trainen, dus specialisatie in 1 bepaalde sporttak is niet organisch!

 

Onderwijs

Het scheppen van Orde moet volgens het Verdinaso gebeuren door de opvoeding. Het moet de mensen gevoelens als gehoorzaamheid, tucht, edelmoedigheid en gemeenschapsgevoel bijbrengen.  Het Verdinaso wil nieuwe mensen vormen, componenten van de Nieuwe Orde!

Er gaat veel aandacht naar de jeugd aangezien zij nog niet aangetast zijn door het liberaal-individualistisch regime. Ze vormen dan ook de grote spil van de op til staande Dinaso-revolutie. Er worden 4 opvoedkundige pijlers voorzien: gezin, Kerk, school en de jeugdbeweging Jongdinaso.

 

Pijler 1: het Gezin

De ouders moeten de Dinaso-waarden overbrengen op hun kinderen, niet alleen door woorden maar ook door daden. Ook moeten de kinderen godsdienstig en vaderlandslievend opgevoed worden.

Er zal een corporatie der gezinnen worden opgericht die de ouders zal helpen bij het adviseren omtrent opvoedkundige problemen.

Van belang hierbij is de centrale rol van de vrouw. De moeder moet ten strijde trekken tegen de materialistische, stijlloze en a-nationale geest. Ze moet haar echtgenoot aanmoedigen en steunen in zijn strijd voor het Verdinaso. Het Verdinaso bedacht ook een originele oplossing voor de werkloosheid: vanaf het huwelijk dient de vrouw ontslagen te worden uit haar professioneel ambt zodoende het kind in volledige Dinaso-geest te kunnen opvoeden. Dit zal ook het cruciale belang van de familie in ere herstellen, alsook de heropleving van het Dietse volks bewerkstelligen. De echtgenoot zal dan wel voldoende geld moeten verdienen om in het onderhoud van het gezin te voorzien, maar dit vormt geen probleem in de nationaal-solidaristische economische visie (die we hier verder niet zullen bespreken).

 

 

Pijler 2: De Kerk

De Kerk moet de gezinnen bijstaan tot godsdienstige en zedelijke grootheid. Want volgens het Verdinaso kan een volk zonder godsdienst kan nooit een groot volk zijn. En gelijk hebben ze.

Pijler 3: De school

Er dient een cruciale ommezwaai te gebeuren voor het onderwijs: op de eerste plaats komt het vormen van nieuwe mensen, op de tweede plaats staat het overbrengen van kennis.

In Hier Dinaso wordt de huidige situatie omschreven (bemerk de actuele analyse!): “In de officiële scholen wordt de band met God doorgesneden en alle idealisme in de kiem gedood. De kinderen worden er opgeleid tot materialisten, men kweekt geen liefde voor het Dietse volk. De kinderen worden ook rijpgemaakt voor latere inlijving in de partijpolitiek. In scholen geeft men enkel onderwijs, de morele en lichamelijke opvoeding laat men totaal links liggen!
Ook straffen zoals strafwerk of schoolblijven worden meer en meer verhinder door de ouders zodat de leerkracht zijn tucht verliest.
Ook bij de selectie van de leerkrachten loopt het fout, want men kijkt niet naar het karakter en het idealisme van de kandidaat en ook niet naar zijn volksverbondenheid.”

Het onderwijs volgens het Verdinaso zal er alsvolgt moeten uitzien:
– De opleiding der leerkrachten zal gebeuren in de Dinaso-scholen voor leerkrachten, en dezelfde geest zullen de leerkrachten overplanten in de Dietse nationale scholen.
– De kinderen moeten de centrale Dinaso waarden leren: tucht, gehoorzaamheid, samenhorigheidswil, werkzaamheid en zedelijke grootheid.
– Ook het herstel van lichamelijke sancties dringt zich op indien de pedagogische noodzakelijkheid zulks vereist!
– Vanzelfsprekend zullen de onderwijzeressen zullen bij het huwelijk uit hun ambt worden ontslagen zodat zij zich volledig kunnen toewijden aan hun eigen kinderen in de gezinsopvoeding.

Er dient ook schoolgeld betaald te worden in de Dietse nationale scholen, maar indien de ouders het niet kunnen betalen zal de  Corporatie bijspringen.


Pijler 4: Jongdinaso

In de jeugdbeweging van het Verdinaso moet men de waarden en theorie die men krijgt in het gezin en op school leren toepassen buiten het gezag van ouders en leerkracht. Bij het begin van de strijd zal de jeugdbeweging belangrijker zijn dan wanneer de Orde gevestigd zal zijn,  omdat de scholen eerst omgevormd moeten worden naar de Dinaso-geest en de tussengeneratie aldus via de jeugdbeweging gevormd zal moeten worden.

Ook zal er veel gezongen worden, want “ons Dietse volk zingt niet meer. Hieraan kan men merken dat wij diep vervallen zijn”.

 

 

Actuele koppeling

In de analyse van het Verdinaso zien we vele elementen terug die nog zeer actueel zijn. Ook ons Volk der Nederlanden heeft te kampen met een volksvreemde, materialistische, liberale en partijpolitieke elite. Een elite die trouwens de traditionele waarden, normen en culturen die Europa ooit rijk was volledig uitgeroeid heeft.

Wij kunnen misschien zeggen dat wij conservatief en traditionalistisch zijn. Wij kunnen zeggen dat wij de traditionele waarden en normen uitdragen en dat wij respect hebben voor het onfeilbare gezag van Leiders zoals de Paus. Maar we dienen te beseffen iedereen in ons Volk, wijzelf inclusief, onderdeel zijn van een liberale en volksvreemde wereldorde die Europa en de Nederlanden tot op het bot aan het vernietigen is.

Daarom is het van belang dat wij als jeugd, vertrekkende vanuit de bestaande wereldorde, Orde op zaken stellen. Ziehier het belang van praktische elitevormin.. Tevens alternatieve elitevorming, want men kan in het huidige liberale systeem al snel elite worden door een goed en immoreel bedrijfsleider te zijn.

Het Verdinaso had qua methode gelijk. Eerst dien je de Leiders van morgen te vormen, de aristocratie op te bouwen waar ieder naar opkijkt. En dan volgt het Volk vanzelf. Mede hierdoor is partijpolitiek totaal verwerpelijk om uw doelen op lange termijn te verwezenlijken!

Misschien klinkt het idee van een autoritaire Leider in de huidige maatschappelijke context wat ver gezocht, en dat is het misschien wel. Maar de aristocratische idee biedt des te meer perspectief.

Ook de militaire pijler van de D.M.O. lijkt misschien wat achterhaald. Maar het is illusie te denken dat oorlog in Europa voorgoed verdwenen is. Het is een illusie te denken dat ons Dietse volk zal overleven zonder militaire macht.

Binnen KASPER proberen wij aan praktische elitevorming binnen de studentenwereld te doen. We herontdekken traditionele cultuur, Europese cultuur. Terwijl anderen wild staan te springen op technobeats zonder enige inhoud, gaan wij op zoek naar culturele verdieping tijdens bijvoorbeeld klassieke concerten. Daarnaast proberen wij onze leden inhoudelijk te vormen, door de mogelijkheid aan te bieden om teksten te schrijven voor op onze webstek, lezingen te organiseren en avonden zoals deze te houden. En dit terwijl andere studenten op hetzelfde moment doelloos bier naar binnen gieten. Ook qua klederdracht en stijl vormen wij een elite. Wij combineren de Dinaso twee-eenheid Stijl en Geest.

Verder zien wij dat het grootste deel van de jeugd, en de studenten, zich doelloos bezig houdt met urenlang elektronische spelletjes te spelen en/of televisie te kijken. Ons volk wordt dommer en dommer! Ook daarom biedt de Dinaso-geest een oplossing: doe nuttige dingen!

Maar buiten de activiteiten van KASPER, en ook na het studentenleven, komt de grootste opdracht. Daar moeten wij dezelfde elitevormende principes stelselmatig behouden, uitdiepen en onszelf blijvend vormen. Wij dienen een nieuwe volksbewuste aristocratie te vormen, waar ons Volk fier op mag en kan zijn!

Om af te sluiten nog dit: KASPER is geen massabeweging en wij zijn niet met duizenden. Maar geschiedenis toont aan dat de doelbewuste minderheid het altijd haalt van de dwaze massa. Elitevorming gebeurt niet in massastijl, met bierwerving onder studenten en wekelijkse drankavonden zonder enige inhoud. Zolang de aristocratische kwaliteit van onze leden groter is dan de gesommeerde kwaliteit van alle bierclubs samen weten wij dat we goed bezig zijn. Kwaliteit boven kwantiteit, een gezonde leuze!

 

Geschreven door Thomas B.

Un grand catholique: Carl Schmitt

Un grand catholique : Carl Schmitt

par Rémi Soulié

Ex: http://stalker.hautetfort.com/ 

Série: (Infréquentables, 6) - Tous les infréquentables.

Le texte de Rémi Soulié, ci-dessous légèrement amendé, a paru dans le numéro spécial de La Presse littéraire consacré aux écrivains infréquentables.

«Je tiens Carl Schmitt pour un profond penseur catholique…»
Jacob Taubes.


carl_schmitt9999.jpgAucun bricolage néo-kantien ne pourra longtemps masquer le nihilisme démocratique et la vacuité moderne – d’autant moins d’ailleurs que cet excellent lecteur de Kant que fut Jacobi diagnostiqua parmi les premiers la maladie nihiliste que les trois Critiques incubèrent fort peu de temps avant qu’elle ne se déclare. L’Europe, c’est-à-dire très exactement la chrétienté selon Novalis, ne pourra réagir qu’en opposant son antidote souverain : le catholicisme. On peut prendre la question dans tous les sens, ce n’est qu’en réactivant l’interrogation théologico-politique, comme l’ont compris Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt, mais aussi Leo Strauss et Jacob Taubes d’un point de vue juif, donc, en dernière analyse, chrétien, que l’on pourra faire rendre gorge au néant. L’adhésion très temporaire de Carl Schmitt au NSDAP (après d’ailleurs qu’il a mis tout Weimar en garde, dès 1932, sur le danger national-socialiste et l’urgence à interdire, par l’article 48 de la Constitution, les partis communiste et nazi) ne s’explique là encore que par la mystique au sens de Péguy – et non la politique: le catholique conséquent croyant en l’existence de l’univers invisible et donc des mauvais anges peut être abusé par les ruses et les séductions de l’Ennemi (au sens schmittien, d’une certaine façon, nous y reviendrons) jusqu’à prendre des vessies pour des lanternes et le point culminant du nihilisme actif (et non passif, celui-ci relevant de la juridiction démocratique) pour le paroxysme de la vérité. À la lettre oxymorique, il côtoie toujours les cimes des abîmes, comme un abbé Donissan ou un curé d’Ambricourt et à la différence de n’importe quel démocrate-chrétien. Les enfileurs de perles et les analystes du rien, hommes du ni oui ni non, font aujourd’hui écran au théologien politique, homme des affirmations absolues et des négations souveraines fidèle à l’Évangile («Que votre oui soit oui, que votre non soit non», Mt 5, 37) alors que ce dernier est évidemment requis par la tiédeur infernale. Le libéralisme, hostile à toute forme de vision, ne voit bien entendu se profiler aucune eschatologie à l’horizon de sa myopie : il rassemble l’alpha et l’oméga de l’Histoire – formule inadéquate quoique révélatrice de la parodie – dans l’alternance, le marché, l’hédonisme, le sentimentalisme et l’humanitarisme (ce que Schmitt appellera, non sans mépris, «la décision morale et politique dans l’ici-bas paradisiaque d’une vie immédiate, naturelle, et d’une «corporéité» sans problèmes» ou «les faits sociaux purs de toute politique»). Qui décidera de l’état d’exception en cas de guerre civile ? Le souverain, soit, personne (l’anti-personne démoniaque – en ceci, le désespoir demeure en politique une sottise absolue, puisque aussi bien le diable porte pierre).

Né en 1888 dans une famille catholique de Rhénanie lointainement originaire de Lorraine, le jeune Carl Schmitt se définit ainsi : «J’étais un jeune homme obscur, d’ascendance modeste […]. Je n’appartenais ni aux couches dirigeantes, ni à l’opposition […]. La pauvreté et la modestie sociale étaient les anges gardiens qui me tenaient dans l’ombre. C’était un peu comme si, me tenant dans un noir total […] j’avais depuis mon poste observé une pièce vivement éclairée […]. La tristesse qui me remplissait me rendait plus distant et suscitait chez les autres distance et antipathie. Pour les couches dirigeantes, quiconque ne vibrait pas à l’idée de les côtoyer était un corps étranger. Il s’agissait de s’adapter ou de se retirer. Je demeurai donc à l’extérieur.» Il poursuit : «Pour moi, la foi catholique est la religion de mes ancêtres. Je suis catholique non pas seulement par confession, mais par origine historique, et si j’ose dire, par la race» (où l’on notera, avec ce dernier terme, l’influence de Péguy).
Lecteur de L’Action Française, francophile, classique, latin, Carl Schmitt s’inscrit également dans la lignée des penseurs qui refusèrent l’absolutisation de la raison trop humaine aux côtés du Karl Barth commentateur de l’Épître aux Romains dans le domaine protestant ou de Martin Buber dans les études juives, fussent-elles hétérodoxes. Si, comme il l’affirme, tous les concepts fondamentaux de la théorie moderne de l’État sont des concepts théologiques sécularisés – ainsi, par exemple, de l’état d’urgence pensé en analogie avec le miracle puisque dans l’un et l’autre cas, la législation naturelle ou politique est rompue par ceux-là mêmes qui l’ont instituée –, seule la théologie permettra de cerner la vérité des sociétés qui croient s’être affranchies de l’une et de l’autre. Le libéralisme nie l’essence de la haute politique qui suppose, en termes schmittiens, un ennemi c’est-à-dire un conflit (chez les pères de l’Église et saint Augustin en particulier, l’Ennemi, c’est le Mauvais, ce qui peut être également le cas chez Schmitt dès lors que la dramaturgie historique oppose in fine le Christ et l’Antéchrist). En niant l’immortalité de l’âme ou en renvoyant cette croyance dans la sphère privée – ce qui revient au même –, le libéral tente de remplacer la tragédie par le vaudeville. La haute politique présuppose la croyance dans le péché originel, la discrimination de l’ami et de l’ennemi qu’elle induit, la dénonciation des leurres de l’Antéchrist – paix perpétuelle, harmonie universelle, gouvernement mondial («Vous savez vous-mêmes que le Jour du Seigneur arrive comme un voleur en pleine nuit. Quand les hommes se diront : Paix et Sécurité ! c’est alors que tout d’un coup fondra sur eux la perdition, comme les douleurs sur la femme enceinte, et ils ne pourront y échapper» (I Thessaloniciens, 5, 2-3) -, l’acceptation de notre condition de créature, donc d’être limité voué à la mort voire au «sérieux» du sacrifice, la décision, enfin, dont l’infaillibilité pontificale pourrait être l’un des modèles. Avec Donoso Cortès, Carl Schmitt considère que le libéralisme et la démocratie consistent soit à ne pas répondre à la question «le Christ ou Barrabas ?» en multipliant les motions de renvoi en commission ou, mieux, en créant une commission d’enquête, soit à y répondre nécessairement par la libération de Barabbas, comme Hans Kelsen en convient d’ailleurs mais pour s’en féliciter, c’est-à-dire par la mise à mort de Dieu – ou, dirait Benny Lévy d’un point de vue juif donc chrétien, par le «meurtre du Pasteur». (L’établissement de la République, en France, releva encore partiellement du domaine politique et donc non libéral puisque les républicains avaient désigné en l’Église catholique l’ennemi «schmittien», et c’était de bonne guerre cela va de soi; la «lutte millénaire entre le christianisme et l’islam» (La Notion de politique ) en est un autre exemple).
Comme aucun discours véridique ne peut être proféré sans que son auteur ne subisse d’une manière ou d’une autre la persécution de ceux-là mêmes à qui il s’adresse ou qu’il défend – toute l’histoire biblique l’atteste –, Schmitt, à l’instar de Maurras, souffrit par l’Église catholique. Sur un coup de tête, il épouse à Munich, pendant la Grande Guerre, une affreuse mythomane originaire de Bohême, Paula Dorotic, qui s’enfuit peu de temps après avec, comble de l’horreur, une partie de sa bibliothèque. Le mariage est annulé civilement le 18 janvier 1924 mais la «bureaucratie de célibataires» que peut être aussi la sainte Église catholique, apostolique et romaine refuse par deux fois d’annuler cette union malencontreuse. Schmitt se résout à se remarier et fut ainsi privé des sacrements jusqu’en 1950, date de la mort de sa seconde épouse. Voilà un signe supplémentaire attestant de son élection.
Excellent papiste, il prend la défense de l’Inquisition, même s’il déplore qu’elle ait été hélas pervertie par l’usage de la torture : «Ce fut une mesure terriblement humaine que la création du «droit inquisitorial» par le pape Innocent III. L’Inquisition fut sans doute l’institution la plus humaine qu’on puisse imaginer, puisqu’elle partait de l’idée qu’aucun accusé ne pouvait être condamné sans aveux […]. En termes d’histoire du droit, l’idée d’Inquisition ne peut guère être contestée, même aujourd’hui» (1).
(On ne s’étonnera pas qu’il argumente une fois encore dans des termes voisins de ceux de Péguy, dans un ordre comparable : «La politique de frapper les têtes (les mauvaises têtes) est une politique d’économie, et même la seule politique d’économie […]. Rien n’est humain comme la fermeté. C’est Richelieu qui est humain – et c’est Robespierre qui est humain. C’est la Convention nationale qui est en temps de guerre le régime de douceur et de tendresse. Et c’est l’Assemblée de Bordeaux et le gouvernement de Versailles qui est la brutalité de la brute et l’horreur et la cruauté. [… ] Tout mon vieux sang révolutionnaire me remonte et […] je ne mets rien au- dessus de ces excellentes institutions d’ancien régime, qui se nomment le Tribunal Révolutionnaire et le Comité de Salut Public et même je pense le Comité de Sûreté Générale… […] et je ne mets rien au-dessus de Robespierre dans l’ancien régime»).

Car Schmitt défendra bien entendu le Grand Inquisiteur contre l’orthodoxe Dostoïevski. En ces temps qui sont les derniers, autrement dit en régime apocalyptique, il écoute les derniers prophètes : «Remarquez-le bien, il n’y a déjà plus de résistances ni morales ni matérielles. Il n’y a plus de résistances matérielles : les bateaux à vapeur et les chemins de fer ont supprimé les frontières, et le télégraphe électrique a supprimé les distances. Il n’y a plus de résistances morales : tous les esprits sont divisés, tous les patriotismes sont morts […]. Il s’agit de choisir entre la dictature qui vient d’en bas et la dictature qui vient d’en haut : je choisis celle qui vient d’en haut, parce qu’elle vient de régions plus pures et plus sereines. Il s’agit de choisir, enfin, entre la dictature du poignard et la dictature du sabre : je choisis la dictature du sabre, parce qu’elle est plus noble».
Une chose est sûre : «Le monde avance à grands pas vers l’établissement du despotisme le plus violent et le plus destructeur que les hommes aient jamais connu […]. Je tiens pour assurer et évident que, jusqu’à la fin, le mal triomphera du bien et que le triomphe sur le mal sera, en quelque sorte, réservé à Notre Seigneur. Il n’est donc aucune période historique qui ne soit destinée à s’achever en catastrophe.»
Ainsi s’exprimait Donoso Cortès au parlement espagnol le 4 janvier 1849 dans son Discours sur la dictature. À Ernst Jünger, Schmitt confiera qu’il considère ce texte comme «le plus extraordinaire discours de la littérature mondiale sans excepter ni Périclès et Démosthène, ni Cicéron ou Mirabeau ou Burke».
Carl Schmitt continue de lire Dostoïevski, Sorel, Bloy, pour qui il a de la «vénération» – c’est lui qui introduit d’ailleurs Jünger à la lecture du Belluaire. Il saluera plus tard «la magnifique confrontation d’un Allemand avec Léon Bloy» dans le Journal de Jünger, qui est «le plus grand document de la spiritualité européenne contemporaine.» Comme tout homme bien né, Schmitt attend donc les Cosaques et le Saint-Esprit, soit, la Rédemption – d’où son influence sur Benjamin, qui lui envoie ses Origines du drame baroque allemand et l’assure de l’influence méthodologique de La Dictature sur ses propres réflexions esthétiques mais aussi de sa dette à l’endroit de sa «présentation de la doctrine de la souveraineté au XVIIe siècle», sur Leo Strauss également ou sur l’«archijuif» – comme il se définissait lui-même – Jacob Taubes. Une étude sérieuse des relations entre Carl Schmitt, les Juifs et le judaïsme, que l’on attend toujours (2), devrait également intégrer la notion cardinale de Nomos : si Schmitt se refuse de la traduire par «loi», ce qui pourrait être hâtivement interprété comme une oblitération du judaïsme, il la comprend à partir des trois catégories fondamentales qui y sont incluses – prendre, partager et paître – ce dernier terme engageant certes le Bon Pasteur christique mais également… David ou Moïse (3). Sans mythe structurant, les agnostiques modernes, eux, collaborent pendant ce temps à la damnation du monde tout en jacassant.
Mais c’est surtout par l’analyse de la figure essentielle du katékhon que Carl Schmitt manifeste une hauteur de vue et un sens aigu de l’Histoire toujours sainte dont la pertinence demeure bouleversante. Pour la comprendre, il faut se reporter à un passage particulièrement difficile de la deuxième Épître aux Thessaloniens de saint Paul concernant ce qui précèdera la parousie : «Il faut que vienne d’abord l’apostasie et que se révèle l’Homme de l’impiété, le Fils de la perdition […]. Et maintenant, vous savez ce qui le retient [tò katékhon], pour qu’il ne soit révélé qu’en son temps. Car le mystère de l’impiété est déjà à l’œuvre; il suffit que soit écarté celui qui le retient [ho katékhon] à présent. Alors se révèlera l’Impie, que le Seigneur Jésus détruira du souffle de sa bouche» (2, 3-9). Qui est ce Katékhon, ce «Rétenteur» ou «Retardateur» dont le rôle est ambigu puisqu’à la fois il empêche la survenue des catastrophes finales mais en même temps retarde d’autant la seconde venue du Christ en gloire et donc de la fin de l’histoire puis du Jugement ? Est-il personnel ? Impersonnel ? Saint Jérôme et saint Jean Chrysostome l’identifièrent avec l’Empire romain; dans la terminologie schmitienne, ce rôle semble tenu successivement par le dictateur commis ou souverain, le défenseur de la Constitution ou le Léviathan, ceci étant révélateur de sa propre hésitation entre la nécessité de conserver partiellement ce qui est et sa non moins nécessaire liquidation partielle ou totale (où Bloy s’impatiente, Schmitt temporise). Voilà pour l’interprétation positive. Sur un plan mystique, ce thème manifeste la nécessité de maintenir ouverte la brèche qui déchire la terre, monte au ciel et plonge en enfer, pendant le règne vermineux du dernier homme (règne possiblement antéchristisque, ce qui infirmerait la pérennité de l’action katékhontique). En elle est serti le roc de Pierre, le Corps visible de Jésus-Christ que cette tension ne parvient pas à écarteler. La mission katékhontique relève peut-être de l’Église catholique, et en particulier de l’ordre jésuite, comme Schmitt le suggère dans son Glossarium : elle seule détiendrait le pouvoir mystérieux de prononcer en même temps le «Marana Tha» de l’Apocalypse – «Viens, Seigneur Jésus !» – et la demande d’un délai de grâce (Schmitt sait que le temps n’est pensable qu’en terme de délai, comme tous les Juifs conséquents). D’une manière énigmatique, comme il convient d’évoquer ces questions, il écrit à Pierre Linn en 1932 : «Vous connaissez ma théorie du katékhon. Je crois qu’il y a en chaque siècle un porteur concret de cette force et qu’il s’agit de le trouver. Je me garderai d’en parler aux théologiens, car je connais le sort déplorable du grand et pauvre Donoso Cortès. Il s’agit d’une présence totale cachée sous les voiles de l’histoire». Jacob Taubes, grand interlocuteur de Schmitt, comprend simplement le katékhon, dans sa Théologie politique de Paul, comme une tentative de dominer le chaos par la forme.
À ceux qui prétendent que l’Église catholique a désamorcé la charge évangélique, Schmitt répond que la juridisation est la réalisation : «Car qu’est-ce que le droit ? La réponse de Hegel est : le droit est l’Esprit se rendant effectif. […] L’Église romaine est réalité historique». Théodore Paléologue a donc raison de considérer que «la politisation schmittienne du katékhon répond à la conviction que l’Esprit doit se rendre effectif et que toute idée chrétienne est une idée incarnée».
«Homme de contemplation», comme il se définissait lui-même, dont «le centre inoccupable» de la pensée «n’est pas une idée, mais un événement historique, l’Incarnation du Fils de Dieu», grand démystificateur des impuissances libérales et de leur juridisme – lequel ne serait que ridicule s’il n’était enclin au totalitarisme – Carl Schmitt a dénoncé le misérable «affect anti-romain» sous la domination duquel nous survivons. Comme Heidegger, dit Jacob Taubes, il a posé des questions fondamentales, en ceci précisément intolérables au libéralisme (qui ne tolère que les insignifiantes), d’où son éviction et la «récitation» obligatoire, dit toujours Taubes, de «l’ABC démocratique» qui doit s’en suivre. Schmitt définit «la clé secrète de toute [son] existence spirituelle et de toute [son] activité d’auteur» comme «le combat pour la radicalisation authentiquement catholique», laquelle constitue sans doute aussi le «savoir intègre» qu’il appelait de ses vœux, au service de la «pensée concrète de l’ordre». Une certitude néanmoins : «Jusqu’au retour du Christ, le monde ne connaîtra pas l’ordre».

Carl Schmitt est mort le dimanche de Pâques 7 avril 1985.

Notes
(1) En 1936 (N.d.a.), Schmitt s’inscrit ici dans la lignée de Joseph de Maistre pour qui «L’inquisition est, de sa nature, bonne, douce, conservatrice».
(2) Je ne méconnais pas l’étude de Raphaël Gross, Carl Schmitt et les Juifs (PUF, 2005, préface d’Yves-Charles Zarka, traduction de Denis Trierweiler) mais elle est hélas exclusivement à charge.
(3) Voir, à nouveau, le très beau livre de Benny Lévy, Le Meurtre du Pasteur (Grasset, 2002) mais, également, Rémi Soulié, Avec Benny Lévy (Le Cerf, 2009).

Bibliographie succincte
- Carl Schmitt, Théologie politique (Gallimard, 1988).
- Heinrich Meier, Carl Schmitt, Leo Strauss et la notion de politique. Un dialogue entre absents (Julliard, 1990).
- Sous la direction de Carlos-Miguel Herrera, Le droit, le politique. Autour de Max Weber, Hans Kelsen, Carl Schmitt (L’Harmattan, 1995).
- Jacob Taubes, La Théologie politique de Paul. Schmitt, Benjamin, Nietzsche et Freud, Seuil, 1999 et En divergent accord. À propos de Carl Schmitt (Payot, 2003).
- Théodore Paléologue, Sous l’œil du Grand Inquisiteur. Carl Schmitt et l’héritage de la théologie politique (Cerf, 2004).
- David Cumin, Carl Schmitt. Biographie politique et intellectuelle (Cerf, 2005).
- Gopal Balakrishnan, L’Ennemi. Un portrait intellectuel de Carl Schmitt (Éditions Amsterdam, 2006).

L'auteur
Rémi Soulié, né en 1968 en Rouergue. Essayiste, critique littéraire au Figaro Magazine, il a récemment consacré un essai à Benny Lévy (Le Cerf, 2009) et prépare une étude, De l'Histoire sainte : Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt.

vendredi, 26 novembre 2010

Ernst Jünger - La civiltà come maschera

Ernst Jünger. La civiltà come maschera

Autore: Marco Iacona

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

La prima figura in ordine cronologico estrapolabile dai lavori giovanili di Ernst Jünger, (ma probabilmente prima anche per importanza) è quella del soldato. Il combattente nella terra di nessuno, il giovane che in solitudine affronta con invidiabile coraggio le truppe e che osserva con lungimiranza l’affermarsi della guerra dei materiali, è già in grado di assumere una propria posizione ideologica che influenzerà parte della cultura tedesca negli anni a venire. Le azioni e le idee del giovane Ernst (qualunque significato assumano) costituiscono, in questi primi anni, un esempio che verrà trasmesso per mezzo delle opere scritte, alla gioventù tedesca e in particolare alle migliaia di reduci insoddisfatti. Tuttavia nello stesso periodo, agli scritti di guerra Jünger alternerà opere di carattere più marcatamente psicologico, e ciò fino agli inizi degli anni ‘30 quando dando alle stampe Der Arbeiter, concluderà oltre un decennio di studi e riflessioni. Nei paragrafi che seguono ci occuperemo di approfondire l’attività del grande scrittore negli anni del primo dopoguerra.

A diciannove anni i sogni africani di Ernst Jünger sono arrivati dinanzi ad un bivio. «Il tempo dell’infanzia era finito» afferma il giovane Berger, alla fine dell’avventura nella Legione Straniera, si può rimanere, cominciare una vita borghese, fatta di agi, piccole e vecchie corruzioni, o si può continuare non fuggendo ma agendo, per soddisfare una incancellabile voglia di protagonismo e scacciare l’horror vacui della crisi. Forte di queste convinzioni, soltanto un cuore avventuroso avrà il coraggio di raggiungere il fronte, poiché è alla ricerca di uno stile di vita maledettamente non-borghese, di un antidoto alla insoddisfazione, di un ideale per cui battersi fino all’estinzione. Accadrà che nel corso della guerra, il fuoco causerà quattordici ferite al corpo del giovane Ernst, ma il pericolo stesso finirà col correggere l’acerba vitalità della recluta: la Grande guerra trasformerà il giovane tenente in un uomo, ne scolpirà il carattere, permetterà lo sviluppo di un pensiero audace.

Nel dopoguerra Ernst Jünger, «soffre la pace» e l’inattività, decide di chiudersi in se stesso, e dopo l’elaborazione dei diari di guerra, «butta giù» numerose riflessioni in forma di schizzo che più tardi comporrà in volume, ama leggere gli scrittori «maledetti», autori dallo spirito fortemente irrequieto, poeti e narratori che sente «propri», è alla ricerca di qualcosa e «crede alla fine di trovarla nell’ascesa della politica tedesca a cui prenderà parte». Le riviste nazionaliste lo attraggono, sceglie l’opposizione alla borghesia e al liberalismo e agli inizi degli anni ‘30 pubblica due fra le più importanti opere del primo periodo: Die totale Mobilmachung e Der Arbeiter ove sviluppa le proprie idee frutto degli anni di riflessione e studio. Si tratta di opere che indagano la realtà con sguardo fermo, a volte spinto agli eccessi, ma guidato dall’onestà intransigente dell’ex combattente.

In tutto il primo periodo, Jünger dimostra di poter abbracciare, grazie ad una scrittura facile e dal contenuto sempre «a fuoco», vari temi: è passato, via via, dai resoconti di guerra, alle riflessioni psicologiche e biografiche per approdare infine, negli anni ‘30, al saggio teorico «impersonale». È agevole notare una natura di scrittore «poco regolata», desiderosa di espressione continua per mezzo di forme diverse e in grado di soddisfare una varietà di esigenze mai fissate a priori. Se la guerra lo ha costruito come uomo, il dopoguerra lo costruisce come scrittore, la scrittura viene utilizzata (secondo alcuni critici, in modo assolutamente inconscio) per superare le crisi del combattente e del reduce e le conseguenze psicologiche ad esse legate. Tuttavia se volessimo tentare una lettura organica degli scritti di cui si è detto, si rende opportuna la ricerca di un leitmotiv che percorra tutta l’opera jüngeriana, costituendone, per così dire, una spina dorsale ideale. Date le premesse, questo tentativo facilita la costruzione di basi idonee a liberare il pensiero di Ernst Jünger da quell’indeterminatezza che alcuni hanno evidenziato, accostandolo ad un tempo ad un ben individuato filone intellettuale e politico.

Per Marcel Decombis la ricerca di un solido punto di vista ha, in Ernst Jünger (malgrado la mancanza di uno specifico metodo) «principi assolutamente fissi», postulati da una forza eminentemente rivoluzionaria; vale a dire lo scrittore manifesta nelle proprie opere una volontà di rottura dello status quo coerentemente sostenuta da un atteggiamento negazionista. D’altro canto, Jünger non può essere annoverato tra i pensatori nihilisti: egli manterrebbe infatti un atteggiamento perennemente (anche se simbolicamente) positivo. Affrontando ogni difficoltà ma mai certo della propria sopravvivenza egli ha dimostrato di intendere l’esistenza, descritta prevalentemente nelle forme del diario-romanzo, nei termini di una vita che nasce dalla morte. Questo capovolgimento dottrinario della natura, già utilizzato da Hölderlin ma presente anche in Wagner e Nietzsche, rappresenta un omaggio sia alla viva forza come sostantivo imperituro, sia alla mortalità generatrice come presupposto di un’idea di immortalità. «Penetrato da questa convinzione, Jünger, chiede [...]che si faccia tabula rasa del passato, prima di porre le basi del futuro». Pertanto le durissime, tragiche prove contenute in ogni esistenza, servono soltanto da prologo al compiersi di uno spirito rigeneratore: guerra, caos, anarchia, non possono che rafforzare la volontà di ciò che è già forte, «la distruzione [non può che avere] un effetto creativo». Riassumendo: le crisi degli anni ‘20 conducono all’elaborazione di opere distruttive, prima di crudo realismo, poi di opposizione interiore, la rigenerazione si rivela nell’opera politica degli anni ‘30, quando tutte le difficoltà precedenti assumono la forma di una nuova dottrina.

Sulla scorta di quanto ha scritto Langenbucher, si può operare un’importante distinzione tra i grandi artisti che presero parte alla guerra nel 1914. Alcuni come George, al momento dello scoppio del conflitto erano adulti, con una personalità formata in pieno e dunque «già carichi di pregiudizi»; altri, Jünger fra questi, erano giovanissimi e molto più adatti a descrivere la nuova esperienza di cui erano così intensamente partecipi; questi ultimi saranno pronti a narrare i trascorsi avvenimenti con una «purezza di intenzioni» che caratterizzerà in modo netto l’intreccio narrativo di numerosissime opere.

Sebbene di diari di guerra, dotati di crudo e visibile realismo, la letteratura del primo dopoguerra abbondi, l’opera di Jünger «è unica nel suo spirito». Decombis individua in essa uno spirito ricco di certezze; i diari jüngeriani sono memorie «spogliate di ogni carattere soggettivo al punto da apparire come dei semplici documenti». In Stahlgewittern è un libro contenente un’elencazione di fatti, spesso identici, che si susseguono nella loro concreta monotonia, è un’opera senza censure, o convenienti omissioni che presenta pagina dopo pagina, un freddo spettacolo di estinzione ed un dietro le quinte fatto di snervante attesa. È il libro che riassume quattro anni di guerra. Das Wäldchen 125 mostra invece un particolare essenziale della lunga esperienza del fronte: la difesa di una postazione di prima linea, è un episodio che in sé riassume la violenza degli attacchi e dei contrattacchi. Feuer und Blut è la narrazione di un giorno al fronte: la controffensiva tedesca del 21 marzo 1918 (evento che Jünger non dimenticherà mai); il soggetto è, dunque, ancora una volta la Grande guerra.

Der Kampf als inneres Erlebnis, può essere considerato un ponte tra le opere narrative di cui si è testé detto ed i lavori successivi. Si apre con essa il periodo di grande riflessione ed elaborazione intellettuale dell’esperienza vissuta. In quest’opera lo scrittore di Heidelberg riflette sul bisogno psicologico di uccidere e sulla distruzione come legge «essenziale» della natura; ma le azioni dell’uomo qui assumono il valore di «flagello necessario» che alimenta un salutare spirito di rinascita. La guerra è «il più potente incontro tra i popoli», ogni principio tra le genti si è affermato attraverso la guerra, essa viene accettata (così come non viene rimosso il ricordo di quattro anni di trincea) perché inevitabile, ed anzi l’accettazione è legata intimamente allo studio delle tecniche di offesa. Una procedura indispensabile per «non rimanere vittima dell’evento», affrontarlo senza soccombere, e dare un’idea di cosa la guerra sia e quale sforzo straordinario il combatterla comporti.

Dunque, a ben vedere, la scelta dello scrittore è di non cantare le lodi della guerra in modo dissennato, bensì di rappresentarla con totalizzante realismo, tentando di ricercarne «un’anima» che possa superare l’emergere delle contraddizioni che la ragione stenta a spiegare. Così egli ha registrato la Materialschlacht, ha convissuto per anni con l’assoluta impotenza del soldato in trincea, ed andando alla ricerca di un proprio «ruolo da protagonista», ha inteso dare alla materialità proprie regole e confini. Jünger accetta la guerra tecnologica («il regno della macchina dinnanzi alla quale il soldato deve annullarsi [...]»), non c’è rimpianto per un passato fatto di eroismi, non c’è insoddisfazione per un presente ove le virtù eroiche non trovano posto; egli ricerca un ordine, un equilibrio tra uomo e macchina, consapevole del ruolo di assoluta importanza che la tecnica occupa, anzi rivolgendo la massima attenzione a quest’ultima, prevedendo già che nuovi comportamenti e nuove mansioni attenderanno l’uomo «prigioniero» della tecnica. Scopriamo cosi uno Jünger materialista che si «sforza di respingere tutte le illusioni dello spirito al fine di ritrovare il linguaggio dei fatti». Tuttavia l’uomo vuole restare «superiore» alla forza potenzialmente distruttiva della tecnica, egli può allora utilizzare quest’ultima come medium per «riaffermare la potenza dell’essere»; così il materialismo, che allontana dalla volontà dello scrittore qualunque superstizione idealista, diviene materia per operare personalissimi adattamenti: la realtà bellica si tramuta in evento estetico ove l’eroismo del singolo convive, in una continua ricerca d’armonia, con lo «strapotere» delle macchine. E poiché Die Maschine ist die in Stahl gegossene Intelligenz eines Volkes, le diverse forze della modernità amano procedere parallelamente.

In Stahlgewittern è un diario-romanzo pubblicato due anni dopo la fine della grande guerra. Come si è detto, costituisce la non breve ouverture di oltre ottant’anni di continua produzione letteraria; per anni la critica, a causa dei contenuti e delle intenzioni del giovane autore, la etichetterà come l’opera principe dell’anti-Remarque della cultura europea. Protagonista unico del libro è il Soldato-Jünger che sconosce le decisioni prese dai superiori e soprattutto le motivazioni di largo respiro strategico delle azioni intraprese. La guerra viene rappresentata in modo parziale attraverso gli occhi del protagonista, l’opera descrive dunque soltanto l’evento in quanto evento e non fatto storico che porta con sé, innumerevoli risvolti e significati. Kaempfer vi ha scorto una lettura degli eventi bellici di comodo, data cioè una tesi aprioristica, l’intreccio narrativo si svilupperebbe con l’intento unico di confermarla, omettendo i dati che con essa contrasterebbero. D’altra parte Prümm ha visto in questo approccio un filo conduttore dell’opera jüngeriana: l’accettazione della realtà in quanto oggetto «che si sviluppa indipendentemente dal singolo individuo». Di conseguenza secondo alcune tesi abbastanza diffuse, vero protagonista dell’opera non si rivelerebbe il soggetto scrivente, bensì un oggetto:

-L’immagine dei corpi straziati, vale a dire la cruda realtà dei morti giacenti sulla superficie delle campagne.

Ovvero uno spirito-guida:

-Il respiro della battaglia che aleggia intorno alle truppe.

In proposito, scrive Jünger:

«Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli [...] la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini [...]» Accenti forti, espressi anni prima in terra francese anche da F.T. Marinetti, accenti forti ma così poco inusuali nella storia delle moderne nazioni. Pertanto In Stahlgewittern, concesse al lettore poche battute iniziali, mostra senza perifrasi, le vere conseguenze dei conflitti moderni: primo inverno di guerra, Champagne, villaggio di Orainville, un bombardamento, tredici vittime, una strada arrossata da larghe chiazze di sangue e la morte violenta che rimescola i colori della natura. Segue il terribile resoconto di una forzata convivenza con la morte e con le azioni di belliche, ove «l’orrore della guerra viene estetizzato in incantesimo demonico e trasfigurato in veicolo estetico di accesso ad una sfera superiore [...]».

La vita comincia al crepuscolo in trincea e continua nelle buche scavate nel calcare e coperte di sterco. Si combatte una guerra di posizione che richiede un davvero difficile eroismo tanto da lasciare poco spazio alle illusioni: l’importante non è la potenza o la solidità delle trincee, ma il coraggio e l’efficienza degli uomini che le occupano. Bohrer sostiene che la rappresentazione dell’orrore in Ernst Jünger, serve a fornire della guerra una «immagine critica», vale a dire l’estetizzazione della stessa sarebbe il solo metodo in grado di darne un’idea reale. D’altro canto, la realtà medesima della guerra diviene realtà «superiore» poiché ogni valore e modello tradizionale è stato da lungo tempo dimenticato.

La scoperta della battaglia dei materiali è l’evento cardine nel processo di formazione delle idee jüngeriane: il valore individuale è annullato dallo strapotere della tecnica. La meccanizzazione della guerra e le conseguenze che ne discendono, sono comprese dal Soldato in tutta la loro forza epocale. È la controffensiva inglese sulla Somme a segnare la fine di un primo periodo di guerra e l’esordio di un nuovo tipo. Questo registra le battaglie dei materiali e subentra col suo gigantesco spiegamento di mezzi, al «tentativo di vincere la guerra con battaglie condotte alla vecchia maniera, tentativo inesorabilmente finito nella snervante guerra di posizione». Già Spengler aveva capito come il valore e il ruolo dell’individuo sarebbero stati ridotti dall’andamento della guerra moderna; ma dalla sua prospettiva Jünger continua ad insistere sulle capacità del soldato, sforzandosi di dare ai compiti del combattente un accento da molti considerato irresponsabile. Tuttavia l’ideale eroico prussiano che Jünger manifesta nel suo diario, sconta anch’esso una lettura di tipo “psicanalitico”. Si tratterebbe, a parere di alcuni, di un tentativo di fuga dal mondo reale, ove il Soldato è costretto ad affrontare gli echi del destino simboleggiati dal Trommelfeuer. L’eroismo diviene la necessità o il calcolo razionale di chi ha pochissimo spazio per combattere una propria guerra, e finisce col dissimulare azioni e comportamenti necessari dettati da tempi meccanici fuori da ogni controllo.

In tutto il resoconto c’è un’impronta magico-fiabesca, una coincidenza degli opposti, che unisce all’esplosione di forze elementari una continua ricerca della quiete cosmica: la battaglia viene sovente destorizzata e calata in una superficie mitica, al di sotto della quale la scrittura jüngeriana edifica possenti colonne, così si legge infatti: «La guerra aveva dato a questo paesaggio [davanti al canale di Saint Quentin] un’impronta eroica e malinconica». In mezzo ai colori della natura «anche un’anima semplice sente che la sua vita assume una profonda sicurezza e che la sua morte non è la fine».

Il tentativo di esorcizzare la guerra, minimizzando gli eventi tragici e costruendo a propria difesa un mondo magico, condurrebbe in tal modo Jünger alla creazione di figure irreali, è questo il caso dell’immagine classica dell’eroe immortale, immerso nella contemplazione di una natura amica. D’altra parte anche l’amatissima letteratura apparirebbe, e non di rado, come incredibile via di fuga. Scrive Jünger, durante un assalto:

«L’elmetto calato sulla fronte, mordevo il cannello della pipa, fissando la strada, dove le pietre lanciavano scintille all’urto con le schegge di ferro; tentai con successo di farmi filosoficamente coraggio. Stranissimi pensieri mi venivano alla mente. Mi preoccupai di un romanzo francese da quattro soldi, Le vautour de la Sierra, che mi era capitato fra le mani a Cambrai. Mormorai più volte una frase dell’Ariosto: “Una grande anima non ha timore della morte, in qualunque istante arrivi, purché sia gloriosa!” Ciò mi dava una specie di gradevole ebbrezza, simile a quella che si prova volando sull’altalena al luna park. Quando gli scoppi lasciarono un po’ in pace i nostri orecchi, udii accanto a me risuonare le note di una bella canzone: la Balena nera ad Ascalona; pensai tra me che il mio amico Kius era impazzito. A ciascuno il suo spleen».

La guerra diventa strumento di intima e eterna vittoria, epifania dell’arte. L’uomo Jünger, traghetta il guerriero in un kunstwald: i pensieri fanno da sfondo ad una tragedia che conosce un’eroica, ma mai sinistra, tristezza. Repentinamente lo sguardo indagatore si affaccia a scrutare gli abissi della guerra ove la passione umana trascolora all’urto di invincibili forze ctonie, leggiamo: «È una sensazione terribile quella che vi si insinua nell’animo quando vi trovate ad attraversare, in piena notte, una posizione sconosciuta, anche se il fuoco non è particolarmente nutrito; l’occhio e l’orecchio del soldato tra le pareti minacciose della trincea sono messe in allarme dai fatti più insignificanti: tutto è freddo e repellente come in un mondo maledetto». Il mondo maledetto è forse soltanto l’arena della tecnica e delle tecniche di guerra? Osservato dalla trincea, il Welt jüngeriano assume i contorni della fabbrica. Compiuto da schiavi-stregoni, l’apprendistato diventa giorno dopo giorno, utilizzo produttivo della paura: la fusione dei materiali in forze onnipotenti.

Lo spirito-guida, la battaglia che non concede vere soste, non cessa di essere protagonista: quando nei primi mesi del 1918, si parla di una immensa offensiva sull’intero fronte occidentale, annota Jünger: «La battaglia finale, l’ultimo assalto sembravano ormai arrivati, lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo». La micro-storia di alcuni villaggi di confine, assurge a Macro-storia, la tragedia a Schicksal di un’epoca. Decisione e azione si trasmutano nel faro ideologico degli anni a venire. La guerra indagata con sguardo lungimirante sarà prologo e continuazione di una ventennale politica europea. In definitiva: le aspre reazioni emotive (i «lati oscuri» jüngeriani) emerse dall’animo umano quali effetti avranno sulla ripresa della quotidianità nel dopoguerra? La «rivincita del brutale sul sentimentale» come ha scritto Decombis, quali effetti avrà sugli anni a venire? L’idea che rimane è che la guerra abbia riscoperto ciò che persiste immutabile nell’animo umano: gli istinti primitivi, allo stesso modo il fuoco ha rimosso quella sottile vernice che ricopriva il fondo della natura umana. Nel corso di quattro indimenticabili anni essa ha strappato la maschera della civiltà permettendo all’uomo di apparire nella sua armonica totalità.

El Reich neoconservador de Edgar J. Jung

EL REICH NEOCONSERVADOR DE EDGAR J. JUNG

Alexander Jacob
 
 
El movimiento neo-conservador en la República de Weimar fue una empresa política elitista que pretendía devolver a Alemania a su mundo espiritual original y posición como líder del Sacro Imperio Romano-Germánico medieval de la nación alemana. Constituido por intelectuales como Oswald Spengler, Arthur Moeller van den Bruck, y Edgar Julius Jung, los neo-conservadores estaban destinados a destruir la situación socio-política y ética de la República de Weimar liberal que se había impuesto a Alemania por sus enemigos. La mayoría de los neo-conservadores eran miembros de los clubes de élite de la época, el Juniklub, fundada por Moeller van den Bruck, y su sucesor, el Herrenklub, y se oponían tanto a todos los populistas de los sistemas democráticos liberales.
De los neo-conservadores, tal vez el más influyente teórico y activista político fue, sin duda, el abogado de Munich, Edgar Julio Jung. Jung no era solamente un pensador y propagandista, sino también un político activo en la República de Weimar, después de haber comenzado su carrera política al mismo tiempo que su práctica jurídica poco después de la primera Guerra Mundial. Jung nació en 1894 en el Palatinado bávaro y sirvió como voluntario en la guerra. Después de la guerra, se unió a una unidad del Cuerpo Libre y participó en la liberación de Munich de la República Soviética de Baviera en la primavera de 1919. Antes de la ocupación franco-belga del Ruhr (1923-25), Jung había terminado su doctorado en Derecho y comenzó la práctica en Zweibrücken. Sus actividades políticas durante este tiempo incluyen la organización de la resistencia y de las actividades terroristas contra la ocupación del Ruhr, formando parte del directorio del Deutsche Volkspartei.
Después de la crisis del Ruhr, Jung se estableció como abogado en Munich, donde vivió hasta su muerte. Jung adquirió fama a través de su política de varios escritos en el Deutsche Rundschau, y su tratado político más importante, Die Herrschaft der Minderwertigen (segunda edición, 1929, 30), que, según Jean Neuhrohr, fue considerado como una especie de "biblia del neo- conservadurismo".
En enero de 1930, Jung se unió a la Volkskonservative Vereinigung, un partido de extrema derecha formado inicialmente por doce diputados del Reichstag, que se habían separado de la Volkspartei Deutschnationale dirigido por Alfred Hugenberg. La actitud de Jung frente al Partido Socialista Nacional de Hitler era tibia, a pesar de su admiración por las "energías positivas" del movimiento. Hitler se había postulado a la nación como un ídolo para hipnotizar a las masas ignorantes, mientras que un cierto movimiento conservador trataba de elevar a las masas mediante la invocación de la santificación de su liderazgo. Los partidos de extrema derecha sin embargo estaban demasiado divididos para formar una alternativa sólida a las fuerzas nacionalistas, especialmente después de una segunda secesión de la DNV, que creó otro partido escindido, el Volkspartei Konservative.
El intento de Jung para imponer su propia marca de 'conservadurismo revolucionario' en la VKV se reunió con poco éxito, y cuando la DNV y KVP unieron fuerzas en diciembre de 1930 la dirección de la nueva coalición fue entregada no a Jung, pero sí a Pablo Lejeune-Jung. En enero del año siguiente, Jung y algunos de los conservadores de Baviera formaron la «Bewegung zu Volkskonservative Bewegung deutscher 'como una política de origen"para todos aquellos que, al margen de las consignas y las fórmulas mágicas de la vida política partidaria, estaban dispuestos a mirar los problemas políticos contemporáneos desde la perspectiva exclusiva de la misión histórica del pueblo alemán".
Sin embargo, la negativa de Jung a cooperar con los conservadores más moderados como Heinrich Brüning y los recursos de Treviranus, a fin de promover su propia marca de conservadurismo revolucionario, no ayudó a su movimiento, que había perdido casi toda la fuerza política en la primavera de 1931. La carencia de entusiasmo de Jung por el canciller Brüning fue explicada por él en un borrador de una carta a Pechel de fecha 14 de agosto 1931:
"Sólo cuando el gobierno está en camino de volver al concepto de autoridad y se libera de la esterilidad del parlamentarismo alemán, puede que estas fuerzas se pongan al servicio de la nación en su conjunto. En la reorganización del gabinete, el objetivo debe ser el abandono total de su base del partido. No es la aprobación de las partes, pero la práctica y la competencia profesional deben determinar la selección de aquellos a quienes usted, canciller respetado, tendrán que ayudarle en el dominio de estas tareas difíciles."
Cuando Hitler y el Partido Nacional Socialista obtuveron las victorias masivas en la región y las elecciones estatales del 24 de abril de 1932, Jung dio la bienvenida a la realidad jurídica de la adhesión de los nazis al poder. Porque, aunque Jung estaba temeroso de las tendencias extremistas de los nazis, esperaba que con este proceso legal, se evitaría la debacle de un ataque forzoso a la voluntad política mayoritaria. Además, la marea de entusiasmo nazi en el país era imparable y la alianza conservadora se vió impotente cuando el NSDAP obtuvo una resonante victoria en las elecciones del Reichstag de noviembre de 1932. Jung quedó naturalmente sorprendido cuando Hitler astutamente unió fuerzas con el conservador Von Papen para formar un gobierno de coalición en enero de 1933. Jung siempre mantuvo una actitud de superioridad con el populismo de Hitler, y creía que, puesto que los conservadores eran "responsables de que este hombre llegase al poder, ahora tenemos que deshacernos de él".
Así que, cuando Franz von Papen fue nombrado vicecanciller de Brüning, en 1933, Jung escribió a Papen que ofrecía sus servicios como escritor de discursos y asesor intelectual. Por consejo de su estrecho colaborador, Hans Haumann, Papen invitó a Jung a unirse con su gobierno en una organización con capacidad de asesoramiento. La intención de Jung en el servicio a la administración de Papen fue "para proteger [a Papen] con una pared de los conservadores" que proporcionaría el rector un enriquecimiento moral necesario frente a un rápido ascenso de Hitler al poder. Con la esperanza de frenar el extremismo de Hitler con su ideología conservadora, Jung se destacó como redactor de los discursos para Papen, cuando éste, Hugenberg y Seldte Franz de la Stalhelm se unieron para formar el conservador Kampfront Schwarz-Rot-Weiss. Sus discursos fueron diseñados para impresionar a la nueva coalición de fuerzas de extrema derecha con un sello conservador en lugar del extremista nazi. Jung defendió el gobierno de Papen contra los nazis "de las acusaciones de reaccionarios”, haciendo hincapié en el carácter revolucionario de la nueva derecha y poniendo de relieve lo espiritual y los defectos ideológicos de Hitler y su partido.
Mientras Papen trataba de luchar contra el movimiento nazi desde un punto de vista conservador, Jung escribió una crítica del fenómeno nazi en su Sinndeutung der deutschen Revolución (1933), en el que reiteró sus acusaciones de neoliberalismo y democratismo, al tiempo que destacaba que "el objetivo de la nacional-revolución tiene que ser la despolitización de las masas y su exclusión de la dirección del Estado".
Jung llama a un nuevo estado basado en la religión y en el mundo visto universalmente. No las masas, sino una nueva nobleza, o una élite auto-consciente, debe informar al nuevo gobierno, y el cristianismo debe ser la fuerza moral en el estado. La propia sociedad debe ser organizada jerárquicamente y más allá de los límites del nacionalismo, a pesar de que debe basarse en "una base völkisch indestructible”. La referencia a ir más allá de los límites del nacionalismo fue, por supuesto, motivada por su deseo de restituir un Reich federalista europeo. El conservadurismo de Jung se distinguió también por su llamamiento para la creación de una monarquía electiva y el nombramiento de un regente imperial como el director espiritual del nuevo Reich europeo-germánico. Sin embargo, tanto el proyecto de Reich como el énfasis puesto en las asociaciones völkisch, se llevaron a cabo de forma más dramática y temeraria por Hitler que por cualquiera de los líderes conservadores.
La oposición de Jung a Hitler tomó una forma más concreta a principios de 1934, cuando emprendió numerosos viajes por toda Alemania para desarrollar una red de simpatizantes conservadores que ayudasen a derrocar el régimen de Hitler. El propio Papen no estaba al tanto de los esfuerzos de Jung en esta dirección y la asistencia de Jung vino de Herbert von Bose, Günther von Tschirschky y Ketteler. Jung incluso contemplaba personalmente asesinar a Hitler, a pesar de los temores de que esta acción drástica podría descalificarlo para asumir un papel protagonista en la nueva dirección. Después adoptó la alternativa académica de escribir otro discurso para Papen, última entrega que se desarrolló en la Universidad de Marburg el 17 de junio de 1934. Los repetidos ataques sobre la ilegitimidad del régimen de Hitler y los fracasos políticos de este régimen en este discurso, obligaron a Hitler, bajo el consejo de Goering, Himmler y Heydrich, su asistente, para deshacerse de la amenaza planteada por Jung. Así, junto con Röhm y los oficiales SA, que se había convertido en rebeldes para los nazis, Jung perdió la vida en la "Noche de los cuchillos largos", el 30 de junio de 1934.
Retrospectivamente, podemos considerar la carrera política de Jung como ambivalente. Motivado por un lado, por su filosofía y la visión de un Reich alemán neo-medieval que debía destruir el sistema parlamentario nocivo de los liberales, la oposición de Jung a Hitler y su negativa a comprometerse con sus compañeros conservadores de la derecha fueron, claramente, impulsados por su ambición personal y, tal vez incluso, por la envidia de los éxitos políticos de Hitler. De hecho, el proyecto conservador propuesto por Jung difería de un extremista como Hitler sólo en grado y no en especie. La comunidad en que Jung deseaba convertir al pueblo alemán, en realidad se presentaba, de una forma similar a la diseñada por de Hitler, como un gigantesco movimiento de masas. Por supuesto, este populismo carecía de la sustancia espiritual que Jung había estipulado para la comunidad, pero los nazis, al menos, podían argumentar que fueron ellos los que sentaron las bases völkisch necesarias para una cultura espiritual uniforme. Además, la dramática política extranjera de Hitler, después de la muerte de Jung, en realidad se parecía demasiado al imperialismo cultural propuesto por Jung para el Reich alemán que debía liderar al resto de Europa.

jeudi, 18 novembre 2010

Pétain & De Gaulle: Two Figures of a Tragic Destiny

Pétain & De Gaulle:
Two Figures of a Tragic Destiny

Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

marechal_petain.jpgPétain, De Gaulle . . . Let us think for a moment about those personages from a far-off time.

First, what a astonishing destiny for Marshal Pétain! To have risen so high and fallen so low! In the long history of France, other great personages were admired, but surely none was loved more before being denigrated so much.

His misfortune was to inherit not only a defeat in which he played no part, but also a people, once great, that had fallen terribly low. Yet, he never gave up on his people.

General De Gaulle, whose destiny so often crossed his, did not nourish the same hopes or the same illusions: “I bluffed,” he confided to Georges Pompidou around 1950, “but the 1st army, they were Negroes and Africans [he meant to say “pied-noirs”]. The Leclerc division had 2,500 engaged in Paris. Actually, I saved face, but France did not follow. They collapsed! From the bottom of my heart, I tell you: all is lost. France is finished. I will have written the last page.” [1]

Even at his worst moments, Pétain could not have thought that.

He was born in 1856 to a peasant family in Picardy, under the reign of Napoleon III, before the automobile and electricity. Three times, he saw his fatherland invaded, in 1870, in 1914, and in 1940. The first time, he was a teenager, and his dream of revenge made him a soldier.

In 1914, he was 58 years old. His independence of mind had put the general’s stars out of reach. A mere colonel, he prepared to retire. The assassination of an Austrian archduke in Sarajevo and the conflagration of Europe decided otherwise. In the crucible, he was suddenly revealed. Four years later, he was that commander and chief of the victorious French Armies of 1918 and received the baton of Marshal of France. Of all the great leaders of this atrocious war, he was the only one loved by the soldiers. Unlike so many of his peers, he did not see his men as raw material. The victor of Verdun was one of the few who understood there is no point in winning if one’s own country is bled to death.

There are many explanations of the defeat of 1940, but for the old Marshal, one of the main causes was in the appalling bloodletting of 1914 to 1918. The holocaust of a million and half of young men had killed the energy of a whole people.

General-Charles-De-Gaulle.jpgThus the first priority was to keep these people as safe as possible from another slaughter. At the same time, Pétain hoped for a future renaissance through a “national revolution.” He has been attacked for that. Admittedly, all would be mortgaged by the Occupation. But really he had no choice. The “national revolution” was not premeditated. With all its ambiguities, it emerged spontaneously as a necessary remedy to the evils of the previous regime.

Today, in the safety and the comfort of a society at peace, it is easy to pass categorical judgments on the men of this that time. But those brutal, pitiless days could not be appeased by moral petitions. At every moment, they required decisions with cruel consequences that could lead to, as so often in times of war, to saving some lives by sacrificing others.

In Cangé, in the Council of Ministers, on June 13rd, 1940, having taken the full measure of the disaster, Marshal Pétain, his voice broken, outlined the policy he followed to the end, in 1944: “I declare that as far as I am concerned, outside of the government, if need be, I refuse to leave French soil. I will remain among the French people to share their sorrows and miseries.”

For those who did not assume the responsibility of government, it was permissible to take another side and symbolically raise the challenge of arms. And it is salubrious that some brave men made this choice. But what does that take away of the nobility to the sacrificial resolution of Marshal Pétain?

General De Gaulle’s adversaries try to minimize the scope and nobility of his own gesture, the call to open resistance. They point out that the Marshal’s former protégé had not jumped into the adventure without a parachute. They add that facing the Germans from London, behind a microphone, was less perilous than doing so in France in dramatic, unequal, daily interactions. Perhaps. But, parachute or not, the General’s choice to rebel was of rare audacity. The fruit of an unrestrained ambition, his detractors reply. Surely. But what can one accomplish without ambition?

This type of ambition, however, was lacking in Marshal Pétain. At the age of 84, with his record, he had nothing more to prove and everything to lose.

If our time were less intoxicated with petty politics and base resentments, we would have long ago celebrated the complementarity of two men who redeemed, each in his own fashion, that which is small, vile, and abject in our times.

Note:

1. Georges Pompidou, Pour rétablir une vérité (Paris: Flammarion, 1982), p. 128.

Source: Nouvelle Revue d’Histoire, no. 50, http://www.dominiquevenner.fr/#/edito-nrh-50-petain-de-ga...

mardi, 16 novembre 2010

Nouvelle revue d'histoire, n°51: Les Années 30 - Rêves et révolutions

 

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dimanche, 14 novembre 2010

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2002

 

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

 

Edouard Rix

 

JNP.gifSeptembre 1938 : le congrès fondateur de la Quatrième Internationale, regroupant les partisans de Trotsky, se tient à Paris. En France, deux groupuscules trotskystes rivaux s’agitent : d’un côté le Parti communiste internationaliste (PCI) de Raymond Molinier et Pierre Franck, qui édite le journal La Commune, de l’autre, le Parti ouvrier internationaliste (POI) de Jean Rous et Yvan Craipeau, chacun privilégiant le travail d’infiltration au sein du Parti socialiste ouvrier et paysan (PSOP) de Marcel Pivert. Juin 1940 : la France est vaincue et occupée par les Allemands. Les Trotskystes hexagonaux sont totalement désorientés : la guerre n’a pas provoqué la révolution attendue, le pacte germano-soviétique a scellé l’alliance d’Hitler et de Staline, et la Quatrième Internationale s’est révélée inutile. C’est dans un tel contexte que certains, convaincus de la victoire durable de l'Allemagne nationale-socialiste, élaborent une sorte de «trotskysme rouge-brun».

Les militants regroupés autour de La Commune décident de poursuivre leur travail d’entrisme. Les partis «ouvriers» étant tous interdits, ils jettent leur dévolu sur les mouvements collaborationnistes et créent une fraction clandestine au sein du Rassemblement national populaire (RNP) de Marcel Déat, qui incarne l’aile gauche de la collaboration et regroupe nombre d’anciens socialistes, notamment pivertistes. C’est ainsi que le frère de Raymond Molinier, Henri, présentera un rapport et prendra la parole dans un congrès du RNP. Autre taupe trotskyste, Roger Foirier, qui avait avant-guerre noyauté les jeunesses du PSOP au point de devenir membre de leur bureau fédéral de la Seine. Il réalisera, sous le pseudonyme de Roger Folk, les affiches des Jeunesses nationales populaires (JNP) pendant que sa femme, Mireille, donnera des cours de gymnastique aux jeunes filles du mouvement.

L’autre groupe trotskyste, le Parti ouvrier internationaliste, tente lui aussi de s’intégrer au paysage politique collaborationniste. En juillet 1940, ses membres créent le Mouvement national révolutionnaire (MNR), qui opte pour une stricte clandestinité, ses réunions se tenant sous le couvert d’une association des Amis de la Musique. Proche des thèses de Marcel Déat et des collaborateurs de gauche, le MNR édite deux journaux clandestins : La Révolution Française, puis Combat national-révolutionnaire. Dans son n°1 de septembre-octobre 1940, La Révolution Française, tout en s’affirmant «ni pro-Allemand, ni pro-Anglais, ni pro-Français», se déclare «partisan de la collaboration européenne avec l’Allemagne». Un slogan proclame d’ailleurs : «Collaborer ? Oui, mais pas sous la botte». Il est vrai que le MNR se rallie ouvertement aux orientations de l’Ordre nouveau européen voulu par les Allemands : «L’Etat et la nation doivent se défendre (...) contre les tentatives de domination occulte, qu’elles proviennent du judaïsme, de la maçonnerie ou du jésuitisme». Le n°1 de mars 1941 de Combat national-révolutionnaire précise que le MNR «souhaite un Etat fort, hiérarchisé, où la régulation entre les divers éléments de la population soit établie par des corporations». Outre son leader Jean Rous, qui a participé à la gauche du PSOP et à la direction du POI, l’on croise au MNR nombre de trotskystes. C’est le cas de Lucien Weitz, qui fut le principal animateur de la gauche révolutionnaire au sein de la SFIO socialiste, puis de l’aile gauche du PSOP, ou encore Fred Zeller, ancien proche de Trotsky et membre de la SFIO, futur grand-maître du Grand Orient de France. Ce dernier commentera son engagement au MNR dans son autobiographie Trois Points c’est tout, et, jouant de l’ambiguïté du groupe, insistera sur ses prises de position anti-allemandes.

L’expérience originale du MNR est totalement interrompue dès juin 1941 par les autorités allemandes qui ont introduit deux espions dans l’organisation. Jean Rous est condamné à six mois de prison, une peine mesurée pour l’époque. L’attaque de l’URSS par l’Allemagne, le 22 juin 1941 modifie radicalement la situation. La Commune cesse son entrisme au sein du RNP. La plupart des membres du MNR rallie la Résistance ou les partis de gauche, tandis qu’une poignée s’engage franchement dans la collaboration avec les Allemands.

Une page d’histoire à rappeler aux actuels boutiquiers trotskystes, Krivine, Laguiller et Lambert, qui font profession d’antifascisme.

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2002, n°15.

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lundi, 08 novembre 2010

Fidus: c'est ainsi que se voyait la jeunesse

Michael MORGENSTERN :

Fidus : c’est ainsi que se voyait la jeunesse

 

fidus45.jpg« Ce qui s’avère nécessaire pour nous, maintenant, ce n’est pas encore davantage d’artificialité ou de luxe technique, mais de nous habituer à éprouver à nouveau de la joie face à notre authenticité spirituelle et à la naturalité de nos corps ; oui, vraiment, nous avons besoin d’apprendre à tolérer la beauté naturelle, du moins dans le domaine de l’art », écrivait Fidus dans le volume édité par Eugen Diederichs pour donner suite de la fameuse rencontre organisée par le mouvement de jeunesse allemand sur le sommet du Hoher Meissner en 1913. Le motif qui l’avait incité à écrire ces lignes fut l’exposition d’un dessin qu’il avait réalisé à l’occasion de cette réunion des jeunes du Wandervogel, un dessin qui s’intitulait « Hohe Wacht » et qui représentait de jeunes hommes nus portant l’épée et aux pieds desquels se trouvaient couchées des jeunes filles, également nues. L’image avait causé un scandale. Plus tard, un dessin de Fidus deviendra l’image culte et le symbole du mouvement de jeunesse ; il était intitulé « Lichtgebet », « Prière à la Lumière ». Sur un rocher isolé, un jeune homme nu étendait les bras et le torse vers le soleil, le visage empreint de nostalgie.

 

Fidus, un artiste célèbre de l’Art Nouveau (Jugendstil) et l’interprète graphique de la « Réforme de la Vie » (Lebensreform) et du néopaganisme, était né sous le nom de Hugo Höppener à Lübeck en 1868, dans le foyer d’un pâtissier. Ses parents l’envoyèrent à l’Académie des Beaux-Arts de Munich, où, très rapidement, il se lia d’amitié avec un peintre excentrique, apôtre d’une nouvelle adhésion à la nature, Karl-Wilhelm Diefenbach. Celui-ci, accompagné de quelques-uns de ses élèves, se retirait régulièrement dans une ancienne carrière abandonnée sur une rive de l’Isar pour y vivre selon les  principes du mouvement « Réforme de la Vie ». Diefenbach pratiquait le naturisme, ce qui alerta les autorités bavaroises qui, très vite, firent condamner le fauteur de scandale à la prison. Höppener accepta de suivre son maître en prison, ce qui induisit Diefenbach à le surnommer « Fidus », le Fidèle.

 

Plus tard, revenu à Berlin, il prendra pour nom d’artiste le surnom que lui avait attribué son maître. Dans la capitale prussienne, il fut d’abord l’illustrateur d’une revue théosophique, Sphinx, ce qui lui permit d’accéder assez vite à la bohème artistique et littéraire berlinoise. Dès ce moment, on le sollicita constamment pour illustrer des livres et des revues ; il travailla aussi pour la revue satirique Simplizissimus puis pour la revue munichoise Jugend, créée en 1896. Cette revue doit son nom au Jugendstil, au départ terme injurieux pour désigner les nouvelles tendances en art. Contrairement au naturalisme, alors en vogue, le Jugendstil voulait inaugurer un style inspiré d’un monde posé comme harmonieux et empreint de spiritualité, que l’on retrouve dans l’univers onirique, dans les contes, dans les souvenirs d’enfance ; et inspiré aussi d’une nostalgie de la plénitude. Une ornementation végétale devait symboliser le refus du matérialisme banal de la société industrielle. Suite à une cure végétarienne de blé égrugé, qui le débarrassa d’une tumeur qui le faisait souffrir depuis son enfance, Fidus/Höppener devint un végétarien convaincu, ouvert, de surcroît, à toutes les médecines « alternatives ».

 

Il cherchait une synthèse entre l’art et la religion et se sentait comme le précurseur d’une nouvelle culture religieuse de la beauté qui entendait retrouver le sublime et le mystérieux. Cela fit de lui un visionnaire qui s’exprima en ébauchant des statues pour autels et des plans pour des halls festifs monumentaux (qui ne furent jamais construits). A ses côtés, dans cette quête, on trouve les frères Hart, Bruno Wille et Wilhelm Bölsche du cercle de Friedrichshagen, avec lesquels il fonda le « Bund Giordano Bruno », une communauté spirituelle et religieuse. En 1907, Fidus se fit construire une maison avec atelier dans le quartier des artistes « réformateurs » de Schönblick à Woltersdorf près de Berlin. Plus tard, une bâtisse supplémentaire s’ajouta à cet atelier, pour y abriter sa famille ; elle comptait également plusieurs chambres d’amis. Bien vite, cette maison devint le centre d’un renouveau religieux et un lieu de pèlerinage pour Wandervögel, Réformateurs de la Vie, Adorateurs de la Lumière et bouddhistes, qui voyaient en Fidus leur gourou. Le maître créa alors le « Bund de Saint Georges », nommé d’après le fils d’un pasteur de Magdebourg qui, après une cure de jeûne, était décédé à Woltersdorf. Fidus flanqua ce Bund d’une maison d’édition du même nom pour éditer et diffuser ses dessins, tableaux, impressions diverses et cartes postales. Dans le commerce des arts établis, le Jugendstil fut éclipsé par l’expressionisme et le dadaïsme après la première guerre mondiale.

 

fidus1.jpgLes revenus générés par cette activité éditoriale demeurèrent assez sporadiques, ce qui obligea les habitants de la Maison Fidus, auxquels s’était jointe la femme écrivain du mouvement de jeunesse, Gertrud Prellwitz, à adopter un mode de vie très spartiate. L’avènement du national-socialisme ne changea pas grand chose à leur situation. Fidus avait certes placé quelque espoir en Adolf Hitler parce que celui-ci était végétarien et abstinent, voulait que les Allemands se penchent à nouveau sur leurs racines éparses, mais cet espoir se mua en amère déception. La politique culturelle nationale-socialiste refusa de reconnaître la pertinence des visions des ermites de Woltersdorf et stigmatisa « les héros solaires éthérés » de Fidus comme une expression de l’ « art dégénéré ». Dans le catalogue de l’exposition sur l’ « art dégénéré » de 1937, on pouvait lire ces lignes : « Tout ce qui apparaît, d’une façon ou d’une autre, comme pathologique, est à éliminer. Une figure de valeur, pleine de santé, même si, racialement, elle n’est pas purement germanique, sert bien mieux notre but que les purs Germains à moitié affamés, hystériques et occultistes de Maître Fidus ou d’autres originaux folcistes ». L’artiste ne recevait plus beaucoup de commandes. Beaucoup de revues du mouvement « Lebensreform » ou du mouvement de jeunesse, pour lesquelles il avait travaillé, cessèrent de paraître. Sa deuxième femme, Elsbeth, fille de l’écrivain Moritz von Egidy, qu’il avait épousée en 1922, entretenait la famille en louant des chambres d’hôte (« site calme à proximité de la forêt, jardin ensoleillé avec fauteuils et bain d’air, Blüthner-Flügel disponibles »). L’ « original folciste » a dû attendre sa 75ème année, en 1943, pour obtenir le titre de professeur honoris causa et pour recevoir une pension chiche, accordée parce qu’on avait finalement eu pitié de lui.

 

Pour les occupants russes, qui eurent à son égard un comportement respectueux, Fidus a peint des projets d’affiche pour la célébration de leur victoire, pour obtenir « du pain et des patates », comme il l’écrit dans ses mémoires en 1947. Le 23 février 1948, Fidus meurt dans sa maison. Ses héritiers ont respecté la teneur de son testament : conserver la maison intacte, « comme un lieu d’édification, source de force ». Jusqu’au décès de sa veuve en 1976, on y a organisé conférences et concerts. La belle-fille de Fidus a continué à entretenir vaille que vaille la maison, en piteux état, jusqu’à sa propre mort en 1988. La RDA avait classé le bâtiment. Les œuvres d’art qui s’y trouvaient avaient souffert de l’humidité et du froid : en 1991, la « Berlinische Galerie » a accepté de les abriter. La maison de Fidus est aujourd’hui vide et bien branlante, une végétation abondante de ronces et de lierres l’enserre, d’où émerge sa façade en pointe, du type « maison de sorcière ». Il n’y a plus qu’un sentier étroit qui mène à une porte verrouillée.

 

Michael MORGENSTERN.

(article paru dans « Junge Freiheit », n°5/1995 ; http://www.jungefreiheit.de/ - « Serie : Persönlichkeiten der Jugendbewegung / Folge 2 : Fidus » - « Série : Personnalités du Mouvement de Jeunesse / 2ième partie : Fidus » ; trad.. franc. : octobre 2010).   

dimanche, 07 novembre 2010

Réflexions sur "Le Zéro et l'Infini" d'Arthur Koestler

Michael WIESBERG :

Réflexions sur Le Zéro et l’Infini d’Arthur Koestler

 

koestler.jpgLa vie d’Arthur Koestler fut loin d’être paisible et monotone. Après avoir abandonné ses études d’ingénieur à la « Haute Ecole Technique » de Vienne, il a émigré vers la Palestine où il a vécu de petits boulots occasionnels. Après ses mésaventures palestiniennes, les éditions Ullstein de Berlin lui offrent un poste de correspondant au Proche Orient, à Paris, puis un poste de journaliste scientifique à Berlin même. Cela durera de 1926 à 1931. Cette période est caractérisée par l’engagement passionné de Koestler pour la cause sioniste. En 1931, il change d’option : il s’engage dans le parti communiste allemand. Pendant la guerre civile espagnole, il écope d’une condamnation à mort et échappe de peu à l’exécution. Pendant la seconde guerre mondiale, il sert brièvement dans les armées française et britannique. Il finit par s’établir à Londres, où il écrira des ouvrages de vulgarisation scientifique. Le 3 mars 1983, il se suicide.

 

Le roman Le Zéro et l’Infini de Koestler paraît d’abord à Londres en 1940. La figure centrale et fictive de ce roman est un bolchevique de la vieille garde, ancien commissaire du peuple : Roubachov. Il est accusé de « menées contre-révolutionnaires », après que les services secrets soviétiques, les sbires du NKVD, l’aient arrêté et placé en détention. D’après Koestler lui-même, cette figure de fiction est inspirée par les dirigeants bolcheviques réels, et de premier plan, que furent Karl Radek, Nicolas Boukharine et Léon Trotski, qui, tous, en ultime instance, devinrent des victimes des purges staliniennes de la seconde moitié des années 30. En créant le personnage de Roubachov, Koestler a essayé de montrer, de manière exemplative, ce qui se passait dans les prisons du NKVD et d’expliquer comment ce noyau dur des anciens révolutionnaires d’octobre 1917 a pu être liquidé. Roubachov est confronté à deux autres personnages, ses adversaires tout au long de l’intrigue : Ivanov et Gletkine. Ils représentent deux générations de bolcheviques. Ivanov, le plus âgé, reçoit l’ordre de convaincre Roubachov de la nécessité de faire des aveux. Bien sûr, Ivanov sait que les crimes imputés à Roubachov sont purement fictifs. Et, malgré cela, il tente de convaincre celui-ci qu’il serait insensé de jouer les martyrs. On ne doit pas transformer le monde en un « bordel sentimental et métaphysique ». La pitié, la conscience, le remord et le doute doivent demeurer des « dérapages répréhensibles ». On ne doit pas abjurer la violence tant qu’il y a du chaos dans le monde. Tout compromis avec sa propre conscience, explique Ivanov au prisonnier, équivaut à de la désertion. Comme l’histoire est a priori immorale, toute attitude qui reposerait sur des décisions morales dictées par la conscience d’un individu, équivaudrait à faire de la politique en s’inspirant des bonnes paroles d’un prêche dominical. Pour cette raison, explique Ivanov, les blessures que ressent Roubachov dans sa propre conscience, au vu des hommes sacrifiés au nom de la « raison de parti », ne sont jamais que des « fictions grammaticales ».

 

AK-zero-infini.jpgPour Koestler, cette notion de « fiction grammaticale » doit nous expliquer cette part du moi que l’on ne définit pas comme « logique » mais comme « personnelle ». Or comme ce moi est inexistant pour le parti, mais que la grammaire réclame un substantif pour cette chose, Ivanov nomme cet aspect du « moi » celui de la « fiction grammaticale ». Roubachov, dans cette phase-là de sa détention, est tourmenté par des scrupules moraux, à cause de ses propres manières d’agir d’antan : celles-ci étaient déterminées exclusivement par un schéma de pensée rationnelle et acceptaient en toute conscience les pertes humaines qu’imposait cette rationalité. Ivanov réussit finalement à convaincre Roubachov que les idées, que celui-ci cultive et rumine, relèvent d’une « sentimentalité bourgeoise ». « On n’entendra aucun coq chanter », dit Ivanov, « si, objectivement parlant, des individus nuisibles sont liquidés ».

 

Ivanov conjure alors Roubachov de tirer les « conséquences logiques » de leurs conversations, et obtient du prisonnier que celui-ci se déclare prêt à signer un aveu qui va dans le sens de l’accusation. A partir de ce moment-là du récit, le roman prend une tournure dramatique. Ivanov, qui, lui aussi, est une figure controversée, est accusé d’avoir mené l’enquête sur Roubachov de manière trop négligente : il est alors remplacé par un représentant de la jeune génération de bolcheviques, qui ne connaît pas les compromis. Ivanov est ensuite liquidé.

 

Gletkine, qui prend la place d’Ivanov, représente, dans Le Zéro et l’Infini, une génération qui agit toujours sans réticence aucune selon la ligne fixée par le parti et qui ne connaît plus personnellement les circonstances vécues par les premiers bolcheviques dans la Russie des Tsars. La liste des crimes supposés que Gletkine présente à Roubachov, est en fait un ramassis d’accusations fantaisistes, dont, en tête, celle d’avoir fomenté un attentat contre le « numéro un », Staline. La volonté de résister, chez Roubachov, est ensuite annihilée par l’application d’une procédure d’audition véritablement éreintante. Au cours de cette longue audition, on apprend pour quels motifs Roubachov doit être sacrifié. « L’expérience nous apprend », explique Gletkine, « que l’on doit donner aux masses des explications simples et compréhensibles pour les processus difficiles et compliqués ». Si l’on disait aux paysans que malgré « les acquis de la révolution », ils sont restés fainéants et arriérés, on n’obtiendra rien. Mais si on leur explique qu’ils sont des « héros du travail » et que l’on attribue les maux qui les frappent encore à des saboteurs, alors on obtiendra quelque chose. Gletkine explique alors de manière fort plausible que le parti est régi par le principe que « la fin justifie les moyens ». Le parti attend donc des « vieux bolcheviques » qu’ils se sacrifient. La raison de cette exigence réside dans le fait que la guerre menace l’Union Soviétique. En cas de guerre, s’il y a des mouvements d’opposition, cela peut conduire à la catastrophe. Gletkine déclare alors à Roubachov  qu’on lui reproche d’avoir, en liaison avec d’autres opposants, tenté de provoquer une scission au sein du parti. Si son repentir est « vrai », alors Roubachov doit aider le parti à éliminer cette scission. Il s’agit de montrer aux masses que tout opposant est un « criminel ». Après la victoire finale du socialisme, explique Gletkine, la vérité reviendra sans doute à la surface. A ce moment-là, Roubachov et les autres recevront la gratitude qui leur revient. Complètement brisé, Roubachov accepte pour finir de signer des aveux de culpabilité. Deux balles dans la nuque mettent fin à son existence.

 

Si l’on cherche à évaluer les conséquences des « grandes purges » pour l’Union Soviétique, l’attention se focalise immanquablement sur les successeurs des « vieux bolcheviques ». La nouvelle génération fut celle qui se soumit de manière inconditionnelle au parti. A la fin de la « tchistka » (de la « purge »), se dresse la pâle figure de l’apparatchik, caractérisée par une « non-identité ». Staline a créé les conditions préalables d’un système de parasites et de pleutres qui n’ânonnaient rien d’autre que les slogans doctrinaires du parti. Sous Staline, le matérialisme cru du marxisme-léninisme est entré dans un processus de perversion, dont l’apogée la plus emblématique fut l’émergence d’une pensée purement immanentiste, érigée au rang de dogme. C’est ainsi, in fine, que Staline a introduit les conditions initiales de l’effondrement final des systèmes sociaux du « socialisme réel » ou, plutôt, de l’égalitarisme radical.  L’idée d’un ordre socialiste juste est resté une chimère en Europe orientale, pour laquelle des millions d’hommes ont dû sacrifier leur vie.

 

L’histoire ne se répète pas. Une tyrannie à la Hitler ou à la Staline ne se présentera plus. Mais il est certainement une chose que le livre de Koestler nous enseigne, et qui reste valable aujourd’hui : il nous montre où nous mène un monde régi par la pleutrerie et la pensée conformiste. Une république qui se vante d’incarner la liberté et la démocratie n’est pas pour autant immunisée contre les tumeurs totalitaires. Il faut donc toujours, dans tous les cas de figure, apprendre à se défendre contre la pleutrerie et le conformisme dès qu’ils se pointent à l’horizon.

 

Michael WIESBERG.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°11/1996, dans la série « Mein Lieblingsbuch / Folge 6 : « Sonnenfinsternis » von Arthur Koestler – Chronik der stalinistischen Säuberung » / « Mon livre favori / 6°partie : « Le Zéro et l’Infini » d’Arthur Koestler – Chronique des purges staliniennes » - Trad.  franç. : octobre 2010).    

mercredi, 03 novembre 2010

Walter Darré: Bio-Ecologia del Campesinado

WALTER DARRÉ: BIO-ECOLOGÍA DEL CAMPESINADO

Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/ 

Sebastian J. Lorenz
La antigua nobleza: sangre y tierra.
Walter Darré, alemán nacido en Argentina, autor de “El campesinado como fuente de vida la raza nórdica” y de “Nueva nobleza de sangre y suelo”, y creador de la doctrina conocida como “sangre y suelo” (Blut und Boden) que propugnaba una nueva nobleza de la raza nórdica ligada a la tierra y a la tradición campesina. Fue Reichsminister de Agricultura, líder del campesinado alemán (Reichsbauernführer) y Obergruppenführer-SS, en cuya calidad ostentó el cargo de director de la Oficina de la Raza y el Reasentamiento (Rasse und Siedlungshauptamt-RusHA). Darré contó con el apoyo de Himmler y de la Ahnenerbe, como se vio en capítulos anteriores, hasta que el propio Führer prescindió de sus servicios y depositó su confianza en los abastecimientos producidos gracias a los “planes cuatrienales” de Göering.
Darré no ocultó nunca un decidido nordicismo: «Es la raza germánica – la raza nórdica según la expresión en boga- quien ha insuflado la sangre y la vida de nuestra nobleza; es esta raza la que ha dictado sus costumbres … Pudiéndose demostrar el origen de esta raza localizada en el noroeste de Europa, se llegó a un acuerdo para dar a esta especie de hombres el nombre utilizado por las ciencias naturales de “raza nórdica, también se habla de “hombre nórdico”. Muchos alemanes auténticos se oponen todavía, en su fuero interno, a que se designe como “nórdico” lo que ellos han considerado toda su vida como germánico por auténticamente alemán … Es imposible hablar de “raza germánica” pues entonces llegaríamos a la falsa conclusión de que las culturas romana, griega, persa, etc, fueron creadas por los germanos. Necesitamos una concepción que exprese esta raza, que fue común a todos estos pueblos». A Darré no le gustaban las denominaciones de “arios” ni de “indogermanos”, por tratarse de designaciones exclusivamente lingüísticas, dándose el hecho de pueblos en los que se ha extinguido la “sangre nórdica” pero que conservan una lengua “indogermánica”. La “idea nórdica”, sin embargo, expresaba la raíz misma de lo alemán y de los pueblos europeos emparentados con él, más allá incluso de lo puramente germánico.
El “ideal de la raza nórdica” sólo podía tener un objetivo posible: «conseguir por todos los medios posibles que la sangre creadora en el cuerpo de nuestro pueblo, es decir, la sangre nórdica sea conservada y multiplicada, pues de eso depende la conservación y el desarrollo del germanismo». En consecuencia, la única conclusión para Darré es que «el hecho de que constatemos hoy un fuerte mestizaje en nuestro pueblo no es razón para continuar por el mismo camino. Es, al contrario, una razón para detener indirectamente el mestizaje designando claramente un resultado a alcanzar como objetivo de selección de nuestro pueblo. Hemos absorbido tanta sangre no-nórdica, que incluso si solamente reserváramos el matrimonio a las muchachas de sangre nórdica, conservaríamos todavía durante milenio en el cuerpo de nuestro pueblo partes de sangre no-nórdica suficientes para aportar el más rico alimento a la diversidad de los temperamentos creadores. Por lo demás, toda parcialidad en el terreno de la selección es compensada siempre por una aportación prudente de la sangre deseada, incluso si es no-nórdica, mientras que la purificación de las partes de sangre extraña en el protoplasma hereditario del pueblo devenido no creador por inconscientes mestizajes es difícil … Para inspirarnos nuevamente de la experiencia de la cría de animales, deduciremos que hay que educar al pueblo alemán para reconozca como objetivo al hombre nórdico y, particularmente, sepa discernir sus rasgos en un mestizo. La selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces; así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera …». Veamos ahora cómo pensaba Darré efectuar la selección de la sangre nórdica a través de la fuente pura y original del campesinado germánico.
La nobleza del campesinado nórdico.
La ruptura entre Himmler y Darré respondió, además, a dos concepciones muy distintas sobre el alma de la raza germánica, que para el primero era, sin duda, la figura del guerrero nórdico conquistador (krieger) y, para el segundo, el campesino nórdico colonizador (bauer), que Hitler sintetizaría en su doctrina racial del espacio vital: soldados para conquistar y campesinos para cultivar. Y a estas dos cosmovisiones tan dispares se había llegado mediante una reinterpretación de la historia de los germanos: Darré rechazaba, por ejemplo, que la institución más característica del medievo germánico, el régimen feudal, fuera de tradición nórdica, porque era propia de unos francos carolingios, romanizados y cristianizados, frente a los cuales se situaban sus enemigos y paganos sajones, que sí representaban los auténticos sentimientos nórdicos de libertad personal y fidelidad a la tierra. La raza nórdica no era pues la del guerrero conquistador o del aventurero nómada, sino una raza de campesinos –armados, desde luego, cuando se presentaba la ocasión para el combate- dirigidos por una nobleza electa extraída de sus mismas fuentes agrarias. La contradicción ideológica interna del marxismo obrero, que triunfó en un país desindustrializado como Rusia, se reproducía inversamente en el nacionalsocialismo de inspiración campesina que se había impuesto en un país urbano e industrial como Alemania.
El romanticismo alemán construyó una imagen idealizada de los antiguos germanos, que basculaba entre el guerrero libre y el agricultor, como una especie de campesino-soldado (wehrbauer), arraigado en la tierra, dispuesto sólo a coger las armas para defender su solar o emprender la búsqueda de otros nuevos que cultivar. Esta tesis se separaba de otras visiones que hacían de los germanos unas tribus nómadas tremendamente belicosas, contraponiendo además la figura del germano pegado a su tierra, libre de contaminación física y espiritual, frente a la tradición urbana de la decadente civilización romana, a la moral parasitaria del judío o al nomadismo depredador de eslavos y mongoles. De esta manera, se producía una comunión mística entre la sangre y la tierra que, en un mundo rural idílico, debía ser el instrumento fundamental de purificación y conservación de la raza nórdica. Aunque el modelo campesino de Darré estaba diseñado para una “renordización interna” de la propia Alemania, tanto Hitler como Himmler pensaban implementarlo en la colonización y consiguiente “nordización” (aufnordung) de los territorios conquistados a los eslavos, como ya había sucedido en otras épocas anteriores gracias al ímpetu aniquilador y colonizador de la orden teutónica.
Evola constataba cómo el campesinado de Europa central había conservado una cierta dignidad que lo volvía diferente del de países meridionales y orientales. Darré veía en el campesino alemán fiel a su tierra la fuente de fuerzas más sana de la sangre, de la raza, del volk, una tradición que fundamentaba en las antiguas civilizaciones indoeuropeas. Ya S.H. Riehl había visto en el campesinado a la única capa social, junto a la nobleza terrateniente (Junkers), los únicos sustratos que no se encontraban desarraigados: sobre estas premisas fue forjándose la consigna según la cual “la tierra libera del dinero”, representándola con el clásico esquema del viejo campesino amante de su tierra pero endeudado con el prestamista enamorado de la usura. Por eso, Darré se ocupó de proponer medidas para evitar el éxodo urbano y el desarraigo del campesino, protegiendo no sólo las tierras contra la especulación, sino también contra el endeudamiento, mediante la institución llamada Hegehof: una propiedad hereditaria inalienable (Erbhof), transmisible al heredero más cualificado en el trabajo de la tierra, y que se conservaría a través de las generaciones por “la herencia del linaje en las manos de campesinos libres”.
Sangre y suelo, raza y tierra, son pues las dos coordenadas nucleares de la ideología campesina de Darré. La raza nórdica podía conservar su primacía sobre las demás por razón de la pureza de su sangre, debiendo para ello retornar a los principios sobre la tierra, el matrimonio y la familia que habían regido las antiguas tribus germánicas. «Para el germano, el suelo y la tierra son un miembro constitutivo más de la unidad del grupo familiar». El asentamiento en las tierras de los antepasados y las uniones entre individuos arraigados en las mismas garantizaba la integridad biológica, previniendo además la contaminación de sangre foránea procedente de otras razas, por cuanto éstas no se encuentran unidas por la herencia al solar patrio. La familia nórdica, cuya existencia estaría garantizada por una unidad agrícola suficiente, sería capaz de producir niños racialmente puros, garantizando el futuro de la raza. El ideal agrario de Darré identificaba al campesino con el noble, afirmando que en el origen de los pueblos germánicos no había distinción entre uno y otro, puesto que la “nobleza de la sangre” había sido aquélla que podía demostrar su más antiguo arraigo a las tierras nórdicas, pero el cristianismo, el igualitarismo afrancesado y el marxismo corrompieron el viejo ideal alemán de nobleza y mutaron las ancestrales leyes de la herencia promoviendo el reparto indiscriminado de la tierra y fomentando las uniones entre individuos de distintos linajes raciales.
La selección del campesinado nórdico.
Para Darré la verdadera noción de nobleza, en sentido germánico, debe caracterizarse por una selección de sus dirigentes sobre la base de “núcleos hereditarios seleccionados”. Darré advertirá que «si queremos organizar la nueva nobleza alemana de acuerdo con la concepción germánica, debemos procurar que nuestra actual nobleza no-germánica desde la Edad Media vuelva a los principios de la nobleza de los antiguos germanos, basada en los valores intrínsecos. Hay que proporcionarle los medios para conservar por herencia la sangre que ha demostrado su valía, para eliminar la sangre de calidad inferior y permitirle apropiarse, en caso de necesidad, de los nuevos caracteres de valor que surjan del pueblo». Para conservar esta unidad sanguínea «hay que fundamentarla en una materialidad nutricia: así, la propiedad del suelo es fundamento obligatorio de la familia germánica», porque el progreso de la civilización se perpetúa cuando los mejores se hacen cargo del cuidado de la tierra. En definitiva, «la tierra, para el pueblo alemán, es tanto una base sana para el mantenimiento y la renovación de su sangre, como un medio para alimentarse».
Para Günther, que se adhirió a la “tesis campesina” de Darré, «la nobleza germánica, al igual que toda nobleza indogermánica, ha tenido originariamente una base biológica, y la igualdad del linaje ha significado, alguna vez en los tiempos primigenios de estos pueblos, tanto como idéntico nivel de capacidad hereditaria e igual preeminencia de las características de la raza nórdica». De esta forma, un Estado de cuño germánico dependería de la existencia de una “nobleza de nacimiento”, de una capa dirigente de familias de “alto valor hereditario” que –según Günther- sólo puede lograrse recuperando los valores biológicos y anímicos de los antepasados de raza nórdica y garantizando su transmisión y perpetuación en las generaciones venideras.
Sin embargo, Darré considera que no podía crearse una nobleza de sangre, una aristocracia racial, sino por aplicación de la idea de selección a la reproducción humana, mediante la utilización de los conocimientos sobre la herencia, llegando a afirmar que la palabra “raza” (rasse) no debía aplicarse a los alemanes, debiendo usar el concepto de “especie” (art) –Darré hacía descender a los nórdicos de una especie divina-, si bien reconoce que “raza” había pasado a convertirse en una unidad de apreciación del hombre desde el punto de vista étnico. «Es solamente con todos los medios posibles que podrá conseguirse que la sangre creativa en el cuerpo de la nación, la sangre de los hombres de raza nórdica, sea mantenida e incrementada». Pero la cuestión no era, para Darré, aumentar indiscriminadamente el número de niños alemanes, sino de garantizar la pureza biológica de sus progenitores. Y por ello, la mujer se convertía en el centro de la supervivencia de la familia, debiendo ser consciente de que su misión consistía en la conservación, fomento y multiplicación de individuos raciales sanos, si bien con el apoyo material y espiritual del Estado y de la propia comunidad popular.
Por su parte, el hombre nórdico debía ser aleccionado sobre la forma de elegir a las mujeres para procrear, no sólo desde un punto de vista sexual, sino predominantemente racial: se crearían para ello oficinas de selección de las mujeres óptimas para tener hijos, separando a las que debían ser esterilizadas, y procurando, al mismo tiempo, que cada hombre pudiera tener descendencia con varias mujeres sin sufrir ningún reproche moral, pues la inmoralidad estaba en las relaciones con hembras de otras razas. «Desde el punto de vista de la selección –escribía Darré- nuestro pueblo debe primero clasificar a sus hombres según sus capacidades, pero debe exigirles escoger como esposas, dentro de lo posible, según su coeficiente de selección nórdica». Darré rechazaba el “espiritualismo racial” de Clauss o el posicionamiento de Günther relativo a una definición de lo nórdico más allá de lo puramente antropológico, pues consideraba que en la elección de una mujer no debe subestimarse la importancia racial de las cualidades corporales: «la selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces y así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera, cuyo efecto resulta incalculable sobre la herencia sanguínea de la descendencia y del pueblo».
Para ello, Darré proponía una selección biológica de las ciudadanas alemanas aptas para fecundar: la primera clase comprendería a las mujeres cuyo matrimonio era deseable para la comunidad desde todos los puntos de vista, raciales y morales; la segunda clase incluía al resto de mujeres sin objeciones desde un punto de vista racial, con independencia de valoraciones morales; la tercera clase englobaría a aquellas mujeres irreprochables moralmente pero con taras hereditarias, a las que sólo podría permitirse el matrimonio en caso de previa esterilización; y la última comprendería a aquellas mujeres cuyo matrimonio debía impedirse tanto por motivos físicos como éticos, por no adecuarse a la naturaleza biopsíquica de la raza nórdica. En definitiva, la ecología genética de Darré pretendía cultivar alemanes campesinos desde la biología, pero no desde la sociología de las costumbres y de las tradiciones.

lundi, 25 octobre 2010

L'accueil critique de "Bagatelles pour un massacre"

L'accueil critique de Bagatelles pour un massacre

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 

C’est un passionnant dossier de presse que propose André Derval. Toutes les grandes signatures ayant traité de Bagatelles à l’époque de sa sortie y sont réunies : de Brasillach à Gide en passant par Léon Daudet, Charles Plisnier, Lucien Rebatet ou Marcel Arland. Et d’autres qui ont sombré dans l’oubli aujourd’hui mais qui détenaient une autorité certaine à l’époque, tels André Billy ou Gabriel Brunet.
Ce dossier atteste que l’accueil du livre fut beaucoup moins clivé qu’on ne l’imagine aujourd’hui. Ainsi, les lecteurs, voire les rédacteurs, actuels du Canard enchaîné seraient sans doute étonnés d’apprendre que leur hebdomadaire commenta Bagatelles pour un massacre de manière très favorable : « Un livre libérateur, torrentiel et irrésistible » [sic]. C’est que, dans les années trente, l’antisémitisme était répandu dans tous les milieux, de la droite à la gauche. À ce propos, on peut regretter que, dans l’introduction, Derval s’abstienne de situer le livre dans son contexte politique. Soit, en France, un climat délétère suscité par les agissements en vogue sous la IIIème République. Évoquant les circonstances de la parution du livre, il se borne à rappeler la déception de Céline face au piètre accueil critique de Mort à crédit. Divers autres spécialistes de l’écrivain ont, eux, fourni bien des clefs permettant de comprendre la genèse du pamphlet. Tel célinien évoque « sa haine de la guerre, et par ricochet sans doute son antisémitisme (duplicité, « internationalisme » et avidité des banquiers et marchands de canons, synonymes de juifs) ¹ », tel autre explique son engagement « par le fait que, d’un naturel très personnel et volontaire, Céline n’était ni lâche ni hypocrite et n’était pas homme à rester sur les gradins quand d’autres se font étriper dans l’arène ². » Rien de tel sous la plume d’André Derval qui trace du pamphlétaire un portrait univoque. Ce n’est pas exonérer Céline de ses excès que de rappeler ses motivations réelles : la hantise d’une nouvelle guerre européenne (considérée par lui comme fratricide) et la défense d’une esthétique.
En revanche, l’intérêt du recueil est de donner à voir l’éventail de la réception critique, notamment celle émanant de la presse d’information juive. À ce propos, aucun des articles parus dans l’hebdomadaire belge L’Avenir juif n’a été référencé dans les bibliographies céliniennes. Apportons donc notre contribution à cette étude de l’accueil critique de Bagatelles en signalant l’un des articles publiés par ce journal. L’auteur n’y cache pas sa surprise de constater que l’imprécateur antisémite est « précisément Céline, le même qui, dans son Voyage, nous donna tout de même l’impression que sa révolte contre un ordre social où l’on s’accommode si allègrement de tant d’injustices ne relevait pas du dilettantisme verbal, d’autant plus qu’il sut trouver souvent des accents bouleversants parce que si indiciblement humains. » Et d’ajouter : « Nous nous sommes trompés. M. Céline n’est qu’un sinistre cabotin ³ ».

Marc LAUDELOUT

• André Derval, L’accueil critique de Bagatelles pour un massacre, Écriture, coll. « Céline & Cie », 2010.

1. Jean-Paul Louis in Louis-Ferdinand Céline, Lettres à Marie Canavaggia, 1936-1960, Gallimard, coll. « Les Cahiers de la Nrf » [Cahiers Céline 9], 2007, p. 328.
2. François Gibault in Louis-Ferdinand Céline, Céline et l’actualité, 1933-1961, Gallimard, coll. « Les Cahiers de la Nrf » [Cahiers Céline 7], 2003, p. 8.
3. N. Gutter, « Bagatelles pour un massacre », L’Avenir juif [Anvers – Bruxelles], 3ème année, n° 92, 11 mars 1938, p. 4d.

 

mercredi, 20 octobre 2010

Carl Schmitt, pensador liberal

Carl Schmitt, pensador liberal: a modo de introducción

por Giovanni B. Krähe

Ex: http://geviert.wordpress.com/
 

Una de las tesis consolidadas en los estudios schmittianos es el anti-liberalismo de Carl Schmitt. Conservadores, monárquicos, católicos, filo-schmittianos “de Weimar”,  anti-schmittianos de wikipedia, ocasionalistas pro-dictadura, antifascistas etc., todos, en familia, están de acuerdo con esta tesis: Schmitt fue un anti-liberal. En este preciso punto, ambos bandos de apologetas y anti-schmittianos se demuestran de acuerdo. La pregunta que queremos poner en este post es: ¿Pero de cuál liberalismo señores? ¿contra cuál liberalismo Schmitt desarrolla su crítica? A continuación retomanos una respuesta que se dió en este blog a modo de introducción sumaria al tema.

Entre revolución nacional y religión: las cuatro tradiciones de la Sonderweg alemana

En Alemania se desarrollan cuatro diferentes tradiciones políticas: conservadora, liberal, católica y socialista. Todas nacen y se desarrollan mucho antes de la fundación del Reich alemán por Bismark (1871). Las cuatro tradiciones poseen un curioso elemento pre-estatual, pre-societario, comunitario y anti-contractualista. Estas características no las convierten en tradiciones “prematuras” o “tardías” (H. Plessner) en relación a la formación de los Estados en USA, Inglaterra o Francia. Muy al contrario. En efecto, a las características mencionadas se añaden otros dos factores históricos muy interesantes que se desarrollarán transversalmente a las cuatro tradiciones mencionadas. Estos dos factores determinarán la denominada “vía particular” (Deutscher Sonderweg):  la revolución nacional y la religión. Siempre a modo de sinopsis, mencionaremos una diferencia curiosa ulterior: el denominado “absolutismo iluminado” de los prusianos (S. XVIII). Los prusianos introducen reformas estructurales a diferentes niveles (la tolerancia religiosa por ejemplo) que la “reina de las revolución continental”, la revolución francesa, conocerá tan sólo posteriormente. Se puede notar entonces un Estado alemán de facto, ya maduro en diferentes frentes, que le faltaba únicamente la forma política del aparato estatal en su sentido moderno con soberanía única, monopolio de la fuerza y territorio unificado. Mientras en los demás casos nacionales europeos los primeros partidos asumirán el rol de la socialización política, en Alemania, en cambio, los primeros agentes de socialización política no son “partidos”, sino asociaciones (Vereine) de creyentes, dado que no hay “Estado” como unidad política hasta 1871. El fenómeno de las asociaciones (religiosas) alemanas es un fenómeno europeo  de tipo cooperativo-comunitario muy interesante para los estudios de historia comparada.

Socialización política entre imperio y reino: los movimientos nacionales de creyentes

Estos agentes de socialización política serán más bien movimientos religiosos y nacionales, en parte “aglutinados” bajo una identidad negativa (el enemigo francés), pero curiosamente forjados a partir de una sutil “ambigüedad” constitutiva muy particular: una continuidad latente con el Sacro Romano Imperio Germánico. Debido a esta continuidad, al interior de las cuatro tradiciones mencionadas todos los agentes desarrollarán un visión fuertemente a favor del modelo del Reich como unidad indivisible y fuertemente pro-unitaria. Esto último se explica en parte debido a la ausencia misma de una forma estatal. No se olvide que el Sacro Romano Imperio era casi una “forma federal” sui generis, por lo tanto las “partes” hacen referencia a un imperio, no a una forma de estados relativamente autónomos, como afirmaría la actual teoría federal por ejemplo. Tal caracter pro-unitario y pro-imperio no será, entonces, unitario únicamente en terminos de la unidad del “Estado-nación” (que no existía), sino de cada uno de estos agentes en relación a sí mismo y al Reich.  En efecto, la etimología de la palabra alemana “partido” (Partei), tuvo siempre un significado íntimamente negativo para todos los agentes que entraban por primera vez en la area política de la revolución nacional. En esta revolución nacional, no se podía ser egoísticamente “de parte” frente a la comunidad. Se cumple, según las máximas de la ética prusiana de la época, un preciso rol, se brinda un preciso servicio (Dienst), según una precisa llamada (Beruf, profesión), para ejercer una función en un preciso ámbito (Be-Reich) al interior de la comunidad espiritual del Reino (Reich). Estos agentes que las cuatro tradiciones ideológicas canalizan a través de la idea de nación y religión, generarán ese futuro sistema de partidos fuertemente orientado al formato imperial de la comunidad del Reich. Será también la misma peculiaridad que llevará a la fuerte polarización inter-partidaria que se verá después de la Primera guerra Mundial, cuando el modelo configurante del II Reich desaparece.

Esta tendencia religiosa nacional-comunitaria, basada en la defensa del Estado como principio, la comunidad política y la identidad colectiva, no es únicamente una peculiaridad de la tradición alemana católica y conservadora, como se podría imaginar rápidamente. Será también un rasgo emblemático de las otras dos familias idelógicas, la liberal y la socialista, incluída la radicalización posterior de esta última, la comunista (en su ala no internacionalista atención). Esta curiosa convergencia se debió a la tendencia general pro-unificación del Estado en su sentido moderno, que era un objetivo y tendencia transversal a las cuatro familias ideológicas. Sólo el comunismo, variante externa y espuria del socialismo alemán, asumirá una contratendencia crítica a través del internacionalismo (por lo tanto será visto como el primer enemigo). Con la derrota de la primera Guerra, los partidos que representaban estras cuatro tradiciones ideológicas (más la novedad comunista) se verán, entonces, tal cual por primera vez, es decir en términos modernos: simplemente “partidos”, organizaciones “de parte” dentro de un Estado democrático frágil. La respuesta será insólita: Ese elemento partidario fuertemente inclusivo y pro-Reich (más aún en el revanchismo de la  derrota) regresará otra vez con el totalitarismo monopartidario del Nacionalsocialismo. El temor que Schmitt ya habia previsto venir desde antes de la primera Guerra, es decir, la completa eliminación de la distinción entre Estado y cuerpo social, se cumple finalmente. Nuevamente re-emerge, entonces, de sus cenizas la tendencia pro-Reich perdida. Este perfil fuertemente de estado-partido – mutatis mutandis – no desaparecerá después de la guerra. Es el caso del denominado “Estado-de-partidos” del sistema político alemán. Este sistema posee una fuerte hegemonía de coaliciones inter-partídarias (2 partidos centrales+3 satélites) excluyentes (se habla de Alemania actual como una “democracia blindada”).

Pietismo y Reforma

Estos agentes de socialización política se irán forjando entonces al interior de una tradición política nacional-religiosa madura, cuya mencionada “ambigüedad” constitutiva se continuará reflejando especularmente ya sea a nivel de la Liga alemana (1815-16) como del pacto militar de la liga “alemana del norte” (1866), oscilante entre “liga de estados” y el “Estado unitario”. Al interior del elemento religioso mencionado no podemos olvidar un factor histórico decisivo muy anterior obviamente, pero no menos incisivo, no sólo en Alemania: los efectos políticos de la Reforma. A esta se añadirá otro factor silencioso dentro de la Reforma misma, no menos decisivo, sobre todo a nivel de los mencionados agentes de socialización política nacional-religiosos, transformados en el tiempo en  movimientos “nacional-sociales”, en cuanto agentes de socialización política . Esto último debido al increiblemente rapido proceso de modernización industrial (casi a la par sino superior a Inglaterra). Tal factor silencioso interno no menos decisivo es el Pietismus, movimiento de creyentes evangélicos anti-iluministas y anti-dogmáticos que desarrollan una mística comunitaria transversal a la Reforma, en el tiempo convertida en “religión de Estado”. El Pietismus fue una corriente evangélica “transversal”, fuertemente comunitaria (fundaban ciudades (!) de creyentes) al dogma reformista. Su núcleo más íntimo es exquisítamente místico.

El nacional-liberalismo alemán de Carl Schmitt

Dados estos elementos histórico-ideológicos weltanschaulich, se puede deducir entonces que  la tradición del liberalismo alemán que surge de este contexto es una tradición con fuertes elementos religiosos en sus primeras formas sociales, y nacional-comunitarios en su vínculo con el Estado. Este liberalismo alemán no será, por lo tanto, confundido con el liberalismo anglosajón (tal vez con la tradición conservadora whig). No hay ni un “individuo” por defender ni libertades negativas por asegurar ante un Estado (no existía tal cual). Luego de la fundación del Reich (1871) el vínculo del nacional-liberalismo alemán a favor de la forma estatal aumentará más aún: En efecto, la peculiaridad del nacional-liberalismo alemán no es la defensa del individuo, sino la defensa de la relación entre la comunidad política y el Estado. En la historia del liberalismo europeo, el liberalismo alemán será sucesivamente catalogado como una “idealización” (Sartori), a través de Hegel, del Estado moderno. Este liberalismo alemán será considerado finalmente como un modelo “estado-céntrico”, para diferenciarlo del liberalismo inglés (que sería individualista-utilitarista). Bajo esta precisa tradición nacional-liberal se formará Schmitt, no menos que Max Weber. El joven Schmitt recibirá además la influencia del mencionado Pietismus, elemento que lo llevará luego a descubrir el misticismo de Franz v. Baader y los anti-iluministas franceses (Louis Claude de Saint Martin). Tales elementos “esotéricos” no serán tampoco extraños a Max Weber.

primera conclusión (tesis):

1) Como ya intuído por la escuela de Leipzig (H. Schelsky en particular), la crítica de Carl Schmitt al liberalismo es una crítica al liberalismo inglés desde la peculiaridad del nacional-liberalismo alemán (H.Preuss, Von Stein) . En la historia de la doctrinas políticas se tiene limitadamente en mente una tradición liberal anglo-americana y se desconoce la peculiaridad del liberalismo continental alemán. Desde esta perspectiva limitada, cualquier crítica no-comunista al liberalismo pasa entonces como mero anti-liberalismo,  asi como cualquier anti-comunismo, es decir, cualquier crítica no-liberal al comunismo, pasa como Fascismo. lo mismo sucede con la falacia del “anti-liberalismo” de Schmitt a secas. A partir de esta ignorancia (porque ignorancia es), se cataloga a Carl Schmitt como un pensador anti-liberal. Nosotros afirmamos: sí,  Schmitt es un pensador anti-liberal, pero contra el liberalismo inglés. El nacional-liberalismo de Schmitt podría catalogarse como una “tercera vía” hegeliana de derecha, como ya desarrollado en una traducción de un artículo de Schmitt al respecto.

dimanche, 17 octobre 2010

Britain and the Weimar Republic

Britain and the Weimar Republic: The History of a Cultural Relationship

Colin Storer (author)

Between the two world wars, Germany managed - despite all the political upheavals it was experiencing - to attract extremely large numbers of British travellers and tourists. During the Weimar period in particular, Germany attracted visitors from virtually every section of British society. In this book, Colin Storer moves beyond the traditional scholarly focus on figures such as Christopher Isherwood and John Maynard Keynes to provide the first broad comparative study of British intellectual attitudes towards Weimar Germany. Based on original research and using striking examples from intellectual life and literature it highlights the diversity of British attitudes, challenges received opinions on areas such as the 'inevitable collapse' of the Republic, and seeks to establish why Weimar Germany was so appealing to such a variety of individuals.

Imprint: I.B.Tauris
Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd

Hardback
ISBN: 9781848851405
Publication Date: 30 Sep 2010
Number of Pages: 264
Height: 216
Width: 134

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mercredi, 13 octobre 2010

Regering moet banken redden - anno 1934

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Regering moet banken redden, anno 1934

 
Met de bankencrisis en de grote regeringsinspanningen om de banken te redden is ons vaak wijsgemaakt dat dit een uniek, eenmalig en vooral precedentloos gebeuren was. Daarbij wordt echter wel vergeten dat in 1934 in België een ongeveer gelijk fenomeen plaatsvond. In die tijd werd België geregeerd door de toenmalige “bankiersregering” Theunis II (*). In het boek “De Jaren ’30 in België: de massa in verleiding”, uitgegeven door nota bene de toenmalige ASLK, kan men op pagina’s 148 en 149 het volgende lezen:

Enkele spectaculaire faillissementen in de banksector bewezen hoe precair de toestand van de Belgische economie was geworden. De bankdeposito’s die eind 1930 meer dan 23 miljard frank bedroegen, waren eind 1933 tot 25 miljard frank gedaald. De deposito’s namen bovendien voortdurend verder af door oppotting en door kapitaalvlucht naar het buitenland, veroorzaakt door de sfeer van wantrouwen. Banken die door slinkende deposito’s en door de algemene achteruitgang van het zakenleven ernstig werden getroffen kwamen in zware liquiditeitsmoeilijkheden. Vaak hadden zij immers hun kortlopende deposito’s aangewend voor het verlenen van ruime kaskredieten en voorschotten aan de door hen gepatroneerde bedrijven. Veel bedrijven slaagden er echter niet langer in hun financiële verplichtinge nna te komen. De banken konden evenwel moeilijke een onmiddellijke vereffening van de achterstallige betalingen eisen. Daardoor zouden de bedrijven immers onvermijdelijk het faillissement worden ingejaagd en zouden de banken hun vaak aanzienlijke participaties en kredieten zien verloren gaan. In de loop van 1932 en 1939 stond de Nationale Bank aan meerdere banken voorschotten als overbrugginskrediet toe. Deze hulp bleek echter vaak onvoldoende om onhei lte voorkomen. [...]

Op 28 maart 1934 moest de socialistische Bank van de Arbeid haar loketten sluiten. [...] Om de algemene onrust te temperen en panische reacties te voorkomen, vaardigde de regering enkele ingrijpende maatregelen uit. Door het Koninklijk Besluit van 22 augustus 1934 werd de splitsing van de gemende banken in portefeuillemaatschappijen en depositobanken beter te beschermen, het vertrouwen in het bankwezen te herstellen en een algemene bankcrisis te voorkomen. [...]

In de loop van 1934 werd steeds duidelijker dat de Algemeene Bankvereeniging, de grootste Vlaamse bank, enorme verliezen had geleden in riskante beleggingen. In haar val dreigde zij de Belgische Boerenbond mee te sleuren. Deze dominerende landbouworganisatie had immers via haar Middenkredietkas, centrale kas van 1200 landelijke Raiffeissenkassen, circa 85% van de aandelen in handen. Om paniek te vermijden liet de regering op 7 december 1934 een wet goedkeuren waarbij een nieuwe instelling, het  Centraal Bureau voor de Kleine Spaarders, werd opgericht met een werkkapitaal van één miljard frank. Het moest hulp bieden in het volksspaarwezen. In realiteit moest het in de eerste plaats de spaargelden van de Raiffeisenkassen redden, een delicate opdracht waarin het ook slaagde.

Het is maar dat u weet dat bankcrisissen geen uniek gebeuren zijn, maar in een systeem van speculatie met een zekere regelmaat zullen voorkomen.

(*) Het kabinet van Georges Theunis, dat de regering van de bankiers wordt genoemd wegens de aanwezigheid in haar schoot van Francqui (Société Générale), Gutt (Groep Lambert) benevens Theunis zelf (Groep Empain), is één van de meest verwenste ministeries geweest die ons land ooit heeft gehad. Bron

mardi, 12 octobre 2010

Carl Schmitt: A Dangerous Man

Carl Schmitt (part IV)

 A Dangerous Man

by Keith PRESTON
 
 
Carl Schmitt (part IV)
 

When Hitler first came to power, Carl Schmitt hoped that President von Hindenburg would be able to control him, and dismiss him from the chancellor’s position if necessary. But within days of becoming chancellor, Hitler invoked Article 48 and began imposing restrictions on the freedoms of speech, press, and assembly. Within a month, all civil liberties had essentially been suspended. Within two months, a Reichstag dominated by the Nazis and their allies (with the communists having been purged and subject to repression under Hitler’s emergency measures) passed the Enabling Act, which, more or less, gave Hitler the legal right to rule by decree. The Enabling Act granted Hitler actual legislative powers, beyond the emergency powers previously provided for by Article 48. Schmitt regarded the Enabling Act as amounting to the overthrow of the constitution itself and the creation of a new constitution and a new political and legal order.

The subsequent turn of events in Schmitt’s life remains the principal, though certainly not exclusive, source of controversy regarding Schmitt’s ideas and career as a public figure and intellectual. Schmitt remained true to his Hobbesian view of political obligation that it is the responsibility of the individual to defer to whatever political and legal authority that becomes officially constituted. On May 1, 1933, Carl Schmitt officially joined the Nazi Party.

Despite his past as an anti-Nazi, Schmitt’s prestigious reputation as a jurist and legal scholar heightened his value to the party. Herman Goering appointed Schmitt to the position of Prussian state councilor in July, 1933. He then became leader of the Nazi league of jurists and was appointed to the chair of public law at the University of Berlin. While occasionally including a racist or anti-Semitic comment in his writings and lectures during this time, Schmitt also hoped to strike a balance between Nazi ideology and his own more traditionally conservative outlook.

Schmitt’s hopes for such a balance were dashed by the Night of the Long Knives purge on June 30, 1934. Not only were hundreds of Hitler’s potential rivals within the party killed, but so were a number of prominent conservatives, including Schmitt’s former associate, General Kurt von Schleicher. Even Papen, who had initially been vice-chancellor under the Hitler regime, was placed under house arrest.

In response to the purge, Schmitt published the most controversial article of his career, “The Fuhrer Protects the Law.” On the surface, the article was merely a sycophantic and opportunistic effort at defending Hitler’s brutality and lawlessness. While Schmitt likely regarded the killing of rival Nazis as little more than a dishonorable falling out among thugs, he also included within the article subtle references to unjust murders that had been committed during the course of the purge, meaning the killing of his friend General Schleicher and others outside Nazi circles, and urged justice for the victims. The wording of the article pretended to absolve Hitler of responsibility while dropping very discreet and coded hints to the contrary.

Though Schmitt enjoyed the protection afforded to him by his associations with Goering and Hans Frank, he never exerted any influence over the regime itself. The purge of the SA leadership had the effect of empowering within the Nazi movement one of its most extreme elements, the SS. The SS soon concerned itself with the presence of “opportunists” and the ideologically impure elements, which had joined the party only after the party had seized power for the sake of being on the winning side. These elements included many middle-class persons and ordinary conservatives whose actual commitment to the party’s ideology and value system were questionable.

Schmitt was a prime example of these. His efforts to revise his theories to make them somewhat compatible with Nazi ideology were subject to attacks from jurists committed to the Nazi worldview. Further, former friends, professional associates, and students of Schmitt who had emigrated from the Third Reich were incensed by his collaboration with the regime and began publishing articles attacking him from abroad, pointing out his anti-Nazi past during his association with Schleicher, his prior associations with Jews, his Catholic background, and the fact that he had once referred to Nazism as “organized mass insanity.”

Schmitt attempted to defend himself against these attacks by becoming ever more virulent in his anti-Semitic rhetoric. When the Nuremberg Laws were enacted in September of 1935, he defended these laws publicly. His biographer Bendersky described the political, ethical, and professional predicaments Schmitt found himself in during this time:

No doubt at the time he tried to convince himself that he was obligated to obey and that as a jurist he was also compelled to work within the confines of these laws. He could easily rationalize his behavior with the same Hobbesian precepts he had used to explain his previous compromises. For he always adhered to the principle Autoritas, non veritas facit legem (Authority, not virtue makes the law), and he never tired of repeating that phrase. Authority was in the hands of the Nazis, their racial ideology became law, and he was bound by these laws.

Schmitt further attempted to counter the attacks hurled at him by both party ideologues and foreign critics by organizing a “Conference on Judaism in Jurisprudence” that was held in Berlin during October of 1936. At the conference, he gave a lecture titled “German Jurisprudence in the Struggle against the Jewish Intellect.” Two months later, Schmitt wrote a letter to Heinrich Himmler discussing his efforts to eradicate Jewish influence from German law.

Yet, the attacks on Schmitt by his party rivals and the guardians of Nazi ideology within the SS continued. Schmitt’s public relations campaign had been unsuccessful against the charges of opportunism, and Goering had become embarrassed by his appointee. Goering ordered that public attacks on Schmitt cease, and worked out an arrangement with Heinrich Himmler whereby Schmitt would no longer be involved with the activities of the Nazi party itself, but would simply retain his position as a law professor at the University of Berlin. Essentially, Schmitt had been politically and ideologically purged, but was fortunate enough to retain not only his physical safety but his professional position.

For the remaining years of the Third Reich, Schmitt made every effort to remain silent concerning matters of political controversy and limited his formal scholarly work and professorial lectures to discussions of routine aspects of international law or vague and generalized theoretical abstractions concerning German foreign policy, for which he always expressed outward support.

Even though he was no longer active in Nazi party affairs, held no position of significance in the Nazi state, and exercised no genuine ideological influence over the Nazi leadership, Schmitt’s reputation as a leading theoretician of Nazism continued to persist in foreign intellectual circles. In 1941, one Swiss journal even made the extravagant claim that Schmitt had been to the Nazi revolution in Germany what Rousseau had been to the French Revolution. Schmitt once again became fearful for his safety under the regime when his close friend Johannes Popitz was implicated and later executed for his role in the July 20, 1944, assassination plot against Hitler (though, in fact, Schmitt himself was never in any actual danger.)

When Berlin fell to the Russians in April 1945, Schmitt was detained and interrogated for several hours and then released. In November, Schmitt was arrested again, this time by American soldiers. He was considered a potential defendant in the war crimes trials to be held in Nuremberg and was transferred there in March 1947. In response to questions from interrogators and in written statements, Schmitt gave a detailed explanation and defense of his activities during the Third Reich that has been shown to be honest and accurate. He pointed out that he had no involvement with the Nazi party after 1936, and had only very limited contact with the party elite previously. Schmitt provided a very detailed analysis and description of the differences between his own theories and those of the Nazis. He argued that while his own ideas may have at times been plagiarized or misused by Nazi ideologists, this was no more his responsibility than Rousseau had been responsible for the Reign of Terror. The leading investigator in Schmitt’s case, the German lawyer Robert Kempner, eventually concluded that while Schmitt may have had a certain moral culpability for his activities under the Nazi regime, none of his actions could properly be considered crimes warranting prosecution at Nuremberg.

Schmitt’s reputation as a Nazi, and even as a war criminal, made it impossible for him to return to academic life, and so he simply retired on his university pension. He continued to write on political and legal topics for another three decades after his release from confinement at Nuremberg, and remained one of Germany’s most controversial intellectual figures. For some time, his pre-Nazi works were either ignored or severely misinterpreted. A number of prominent left-wing intellectuals, including those who had been directly influenced by Schmitt, engaged in efforts at vilification.

An objective scholarly interest in Schmitt began to emerge in the late 1960s and 1970s, even though Schmitt’s reputation as a Nazi apologist was hard to shake. Interestingly, the framers of the present constitution of the German Federal Republic actually incorporated some of Schmitt’s ideas from the Weimar period into the document. For instance, constitutional amendments that alter the basic democratic nature of the government or which undermine basic rights and liberties as outlined in the constitution are forbidden. Likewise, the German Supreme Court may outlaw parties it declares to be anti-constitutional, and both communist and neo-Nazi parties have at times been banned.

Schmitt himself returned to these themes in his last article published in 1978. In the article, Schmitt once again argued against allowing anti-constitutional parties the “equal chance” to achieve power through legal and constitutional means, and expressed concern over the rise of the formally democratic Eurocommunist parties in Europe, such as those in Italy and Spain, which hoped to gain control of the state through ordinary political channels.

 

Schmitt’s Contemporary Relevance

 

The legacy of Schmitt’s thought remains exceedingly relevant to 21st-century Western political and legal theory. His works from the Weimar period offer the deepest insights into the inherent weaknesses and limitations of modern liberal democracy yet to be discussed by any thinker. This is particularly significant given that belief in liberal democracy as the only “true” form of political organization has become a de facto religion among Western political, cultural, and intellectual elites. Schmitt’s writings demonstrate the essentially contradictory nature of the foundations of liberal democratic ideology. The core foundation of “democracy” is the view that the state can somehow be a reflection of an abstract “peoples’ will,” which, somehow, rises out of a mass society of heterogeneous individuals, cultural subgroups, and political interest groups with irreconcilable differences.

This is clearly an absurd myth, perhaps one ultimately holding no more substance than ancient beliefs about emperors having descended from sun-gods. Further, the antagonistic relationship between liberalism and democracy recognized by Schmitt provides a theoretical understanding of the obvious practical truth that as democracy has expanded in the West, liberalism has actually declined. The classical liberal rights of property, exchange, and association, for instance, have been severely comprised in the name of creating “democratic rights” for a long list of social groups believed to have been excluded or oppressed by the wider society. The liberal rights of speech and religion have likewise been curbed for the ostensible purpose of eradicating real or alleged “bigotry” or “bias” towards former out-groups favored by proponents of democratic ideology.

The contradictions between liberalism and democracy aside, Schmitt’s work likewise demonstrates the ultimately self-defeating nature of liberalism taken to its logical conclusion. A corollary of liberalism is universalism, yet liberal universalism likewise contradicts itself. Liberalism, as Westerners have come to understand it, is a particular value system rooted in historic traditions and which evolved within a particular civilization and was affected by historical contingencies (the Protestant Reformation, the Enlightenment, and Modernism being only the most obvious.)

Schmitt’s definition of the essence of the political as the friend/enemy dichotomy simultaneously exposes the limitations of liberalism’s ability to sustain itself. Robert Frost’s quip about a liberal being someone who is unable to take his own side in a fight would seem to apply here. The principal weakness of liberalism is its inability to recognize its own enemies. Even in the final months of the Weimar republic, liberals, socialists, and even Catholic centrists held so steadfastly to the formalities of liberalism that they were unable to perceive the imminent destruction of liberalism that lurked a short distance ahead.

This insight of Schmitt would seem to go a long way towards explaining the behavior of many present day zealots of Liberal Democratic Fundamentalism. It is currently the norm for liberals to react with a grossly exaggerated, almost phobic, sense of urgency concerning the supposed presence of elements espousing “racism,” “fascism,” “homophobia,” and other illiberal or ostensibly illiberal ideas in their own societies. In virtually all Western countries, elements espousing the various taboo “isms” and “phobias” with any degree of seriousness are marginal in nature, often merely eccentric individuals, tiny cult-like groups, or politically irrelevant subcultures.

And yet, liberals who become hysterical over “fascism,” typically express absolutely no concern about the importation of unlimited numbers of persons from profoundly illiberal cultures into their own nations. Indeed, criticizing such things has itself become a serious taboo among liberals, who somehow believe that such values as secularism, feminism, and homosexual rights can never be threatened by the mass immigration of those from cultures with no liberal tradition, where theocratic rule is the norm, or where the political and social status of women has not changed in centuries or even millennia, where there is no tradition of free speech, where capital punishment is regularly imposed for petty offenses, and where homosexuality is often considered to be a capital crime.

A related irony is that liberals have embraced “Green” consciousness in a way comparable to the enthusiasm and adulation shown to pop music stars by teenagers, while remaining oblivious to the demographic and ecological consequences of unlimited population growth fueled by uncontrolled immigration.

Schmitt’s steadfast opposition to legal formalism as a method of constitutional interpretation and as an approach to legal theory in general is also interesting when measured against the standard complaints about “judicial activism” found among “mainstream” American conservatives. Schmitt’s view that laws, even constitutional law itself, should be interpreted according to the wider essence or deeper substance of the laws and constitutions in question and according to the concrete realities of specific political situations would no doubt make a lot of American conservatives uncomfortable. Of course, an important distinction has to be made between Schmitt’s seemingly open-ended approach to legal theory and the standard ideas about a “living constitution” found among American liberal jurists. Schmitt was concerned with the very real and urgent question of the need to preserve civil order and political stability in the face of severe social and economic crisis, civil unrest, and threats of revolution, whether through direct violence or cynical manipulation of ordinary political and legal processes. The various legal theories involving a supposed “living constitution” or “evolving standards” advanced by American liberals represents the far more dubious project of simply replacing the traditional Montesquieu-influenced American constitution with an ostensibly more “progressive” democratic socialist one.

That said, one has to wonder if it would not be appropriate for American anti-liberals to initiate an ideological move away from advocating strict adherence to the principle of legal or judicial neutrality towards a perspective that might be called “defensive judicial activism,” e.g. the advocacy of the use of the courts at every level to resist the encroachments of the present therapeutic-managerial-multiculturalist-welfare state in the same manner that liberals have used the courts to impose their own extra-legislative agenda. This would be an approach that is more easily discussed than implemented, of course, but perhaps it is still worthy of discussion nevertheless.

The political theory of Carl Schmitt likewise aids the development of a more thorough understanding of the nature of the state itself. Contrary to the prevailing view that political rule can be rooted objectively in sets of formal legal rules and institutional procedures, or that the state can be a mere reflection of the idealized abstraction of “the people,” Schmitt recognized that ultimately political rule is based on the question of “Who decides?” Ideological pretenses to the contrary, there will be a “sovereign” (whether an individual or a group) who possesses final authority as to what the rules will be and how they will be interpreted or applied.

Schmitt’s friend/enemy thesis likewise contains the recognition that the prospect of lethal violence defines the essence of politics. Political rule is about force, and about possessing the ability to exercise the necessary amount of physical violence to maintain a system of rule. The truth of these observations and of Schmitt’s broader critique of liberalism and democracy do not by themselves eliminate the problematical nature of Schmitt’s own Hobbesian outlook. Clearly, Schmitt’s own life and career illustrate the limitations of such a view. Indeed, after his purge by the Nazis, Schmitt reflected on Hobbes more extensively and modified his views on political obligation somewhat. He concluded that political obligation must be reciprocal in nature. Hobbes taught that the individual was obligated to obey political authority for the sake of his own protection. Schmitt argued in light of the Nazi experience that the individual’s obligation of obedience is negated when the state withdraws its protection. Schmitt’s concern with the primacy of order and stability could well be summarized by the Jeffersonian principle that “prudence, indeed, will dictate that governments long established should not be changed for light and transient causes.”

Yet, there is the wider question of the matter whereby the malignant nature of a particular state is such that the state not only fails to provide protection for the individual but threatens the wider culture and civilization itself, a situation for which Dr. Samuel Francis coined the term “anarcho-tyranny.” Clearly, in such a scenario, it will seem that the obligation of political obedience, individually or collectively, becomes abrogated.

Keith Preston

 

dimanche, 10 octobre 2010

La critica alla democrazia in Henri de Man

La critica alla democrazia in Henri de Man

Ex: http://fralerovine.blogspot.com/ 

La democrazia come forma di dominio borghese

Il giovane De Man è ancora fedele al marxismo ortodosso, in linea con la Seconda Internazionale, ma già si delineano alcuni temi che saranno centrali nel suo pensiero. In particolare, in “L’era della democrazia” (1907) emergono tre punti fondamentali. In primo luogo, il suo socialismo ha una base volontaristica, secondo cui lotta di classe e istinto di sopravvivenza – “volontà di potenza” per usare un termine nietzscheano” – coincidono. In secondo luogo – e qui viene ribadita la sua linea radicale e non riformista –, il proletariato dovrà essere attento a non cedere agli inganni della borghesia, bensì mantenersi puro e intransigente per conquistare il potere. Egli, infatti, riconosce il carattere precedentemente rivoluzionario della borghesia, ma ammonisce a non confondere la rivoluzione borghese con quella proletaria.

 

1. La crescita parallela dei movimenti socialisti dei lavoratori e del movimento democratico di parte della borghesia, come abbiamo visto negli ultimi anni, in particolare da noi in Francia, Inghilterra, Olanda e Belgio, ha portato molti membri del nostro partito alla conclusione che, siccome entrambi i fenomeni sono portati avanti dalla medesima causa e per lo stesso scopo (la “democrazia” che infine diverrà “socialista”), così il progresso della democrazia e quello del movimento dei lavoratori sarà simile, combinato, inseparabile. Bene, questa conclusione è erronea, questa conclusione è falsa, questa conclusione è pericolosa.

 

In terzo luogo, però, il proletariato, man mano che acquisterà coscienza di classe, sarà in grado di vincere la borghesia con le proprie forze, sfruttando le stesse condizioni della democrazia borghese.

 

2. Sarebbe il peggior tipo di pessimismo concludere che non dobbiamo aspettarci immediati miglioramenti politici, che dobbiamo fermarci e riporre tutta la nostra speranza nel sovvertimento rivoluzionario della società capitalista. No; la democrazia politica – cioè, un minimo di diritti politici e legalità – è la condizione assolutamente indispensabile per il successo della rivoluzione sociale […]. Ma il proletariato sarà sempre più l’unica forza a sostenere tutte le battaglie per la democrazia e dovrà dipendere sulle sue risorse per la realizzazione della democrazia. Man mano che la democrazia diventa più indispensabile per il proletariato, diviene più pericolosa per la borghesia, e man mano che la lotta per ogni frammento di libertà e legalità diventa più difficile, sempre più s’avvicina a quella lotta finale in cui non ci sarà quartiere, dove la posta sarà il controllo del potere politico, la stessa esistenza dello sfruttamento capitalistico e della democrazia a uno e a un medesimo tempo.

 

Fin dall’inizio, quindi, il rapporto con la democrazia borghese, in quanto sistema politico reale e quotidiano in cui ci si trova ad operare e che occorre affrontare, risulta fondamentale nell’opera di De Man, il quale però ammonisce che la democrazia può spianare la strada al proletariato ma non è in sé una condizione sufficiente, tale da condurre automaticamente al socialismo.

 

3. Dunque, nella nostra lotta, non lasciamo che illusioni sulla misericordia della borghesia, né fiducia nella sincerità delle loro convinzioni democratiche, confondano la consapevolezza di classe del proletariato. La posta della battaglia è ben maggiore che un po’ di legalità o solo una riforma, ben più grande di quanto una rivoluzione borghese abbia mai tentato. E il proletariato ha un’arma molto più forte e formidabile di quanto la borghesia ne abbia mai usate. Non l’ha forgiata a partire dall’idea democratica – e dal fraseggio di un impotente classe in declino. Come il giovane eroe nel Sigfrido di Wagner, vede ciò con distacco […]. E forgerà la sua spada per salvare il mondo a partire dalla forte organizzazione di classe e con eroica coscienza di classe.

 

Infatti, approfondendo la sua preparazione teoretica e la sua conoscenza della democrazia liberale, De Man sarà sempre più cauto e guardingo relativamente all’attrazione del liberalismo e del riformismo sul proletariato. Particolarmente interessanti sono le sue lettere da London, pubblicate nel 1910 sul “Leipziger Vokszeitung” come “Lettere di viaggio socialiste”, laddove egli descrive come il partito laburista sia del tutto integrato in quello liberale e, perciò, funzionale agli stessi interessi borghesi, mentre invece quelli dei proletari sono ignorati o calpestati.

 

4. È del tutto ovvio che la natura della competizione elettorale tra i due grandi partiti borghesi, che almeno a Londra monopolizza quasi il campo di battaglia, è una competizione per catturare i voti del lavoratore attraverso trucchi pubblicitari da poco, così che il partito che ha meno scrupoli e più denaro vincerà. Perché alla fine, l’essenza del senso politico nel sistema elettorale inglese è questo: trasformare il potere finanziario delle classi proprietarie in potere politico in modo che il diritto di voto dei lavoratori sia reso un modo di preservare la loro dipendenza intellettuale e politica dai partiti borghesi.

 

L’analisi e la critica del sistema democratico inglese prosegue toccando altri punti fondamentali, quali la legge elettorale in sé, la quale esclude il voto femminile, riduce l’elettorato ai soli possidenti o affittuari benestanti, garantisce il voto plurale a laureati e proprietari terrieri, ed è basata su un sistema maggioritario, per cui in ogni collegio è eletto solo il singolo candidato che ottiene la maggioranza relativa. Inoltre, egli descrive la conduzione della campagna elettorale presso i lavoratori con distribuzione gratuita di alcoolici, propaganda di massa e addirittura l’organizzazione delle masse stesse al voto. Il termine che meglio descrive l’atteggiamento delle classi dominanti verso la classe operaia è “condiscendenza”.

 

5. Il movimento socialista operaio è trattato dalla classe dominante in Inghilterra in completo contrasto con il socialismo e con il movimento operaio. Mi esprimerò più chiaramente: il socialismo come teoria sociale e filosofica non appare come minaccioso per il corpo della borghesia, finché esso non trova sostenitori nei circoli intellettuali borghesi […]. In breve, il socialismo qui è ancora socialmente accettabile, come non lo è stato per lungo tempo in Germania. La borghesia inglese molto tempo fa ha fatto pace con il movimento dei lavoratori a patto che non fosse socialista, cioè, con il movimento sindacale di vecchio stampo.

 

Tuttavia, come fa notare De Man, alla “carota” viene affiancato il “bastone”: i metodi repressivi non sono meno assenti nella democrazia liberale, semplicemente essi sono usati con maggiore parsimonia e oculatezza. Questo è particolarmente evidente nel modus operandi della polizia inglese, in realtà non molto dissimile da quella prussiana, nonostante la differenza di regime, in linea teorica.

 

6. Alla fine il parallelo tra i “bobbies” e i “Bleus” riflette fondamentalmente quello tra le due forme di governo, il borghese liberale e lo Junker reazionario, in generale. Queste sono le due forme democratiche di oppressione politica del proletariato nell’era capitalista; la prima è la più ragionevole, la seconda la più brutale. Questo non significa che la polizia di Londra non possa e non si sia comportata in modo brutale. Ma questo ha luogo non regolarmente ma solo in circostanze straordinarie, cioè, quando è considerato davvero indispensabile.

 

In sintesi, il giovane De Man prende una posizione molto dura verso la democrazia borghese, liberale o autoritaria che sia. Se da una parte, infatti, riconosce che all’interno di essa è possibile trovare gli strumenti per portare avanti la lotta di classe, pure è consapevole che a un certo punto sarebbe risultata inevitabile la rivoluzione.

La democrazia come tappa intermedia

Nel 1914, con l’invasione del Belgio da parte tedesca, questa visione secondo cui non c’era differenza tra i vari regimi borghesi e imperialisti doveva cambiare radicalmente. Le democrazie occidentali parevano, infatti, garantire maggiori possibilità ai movimenti operai rispetto agli imperi centrali. Altrettanto importanti furono le sue esperienze di viaggio in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, che lo convinsero della necessità di un ordinamento democratico come tappa intermedia tra il capitalismo e il socialismo. In quest’ottica egli arrivò a contrapporre all’URSS, che egli accusava di eccessiva furia nel tentare d’imporre le conquiste del socialismo a un proletariato ancora impreparato, gli Stati Uniti, dove invece vedeva quasi compiute le basi democratiche del socialismo.

Henri De Man, ne traccia una sintesi nell’articolo “La lezione della guerra”, comparso su “Le Peuple” nel 1919. Egli è però attento a sottolineare come la sua posizione non fosse stata immediatamente interventista come molti altri socialdemocratici e socialisti europei, bensì meditata alla luce degli eventi da lui vissuti tra il 1915 e il 1918, e frutto di una coscienza tormentata dalla consapevolezza delle contraddizioni.

 

7. Al fine di evitare ogni incomprensione, devo dichiarare che, anche se io ero un ufficiale associato all’azione del governo durante la guerra con due missioni ufficiali all’estero – in Russia nel 1917 e negli Stati Uniti nel 1918 – non sono mai stato tra quelli che hanno perso la loro autonomia morale per l’intossicazione del patriottismo ufficiale e dello sciovinismo militarista. Io ero un socialista antimilitarista e internazionalista prima della guerra. Credo di esserlo ancora di più ora. Forse lo sono in modo differente, ma certamente non in misura meno profonda o meno sentita. È precisamente perché io considero il socialismo una realtà urgente e ancora più ineluttabile che mai che esso mi appare da una prospettiva differente dalle mie opinioni del 1914. La revisione delle mie idee è dovuta soprattutto al fatto che per tre anni sono state letteralmente sottoposte alla prova del fuoco.

 

De Man propone in queste pagine però una svolta di entità non indifferente, anzi una vera e propria revisione del marxismo, dovuta ad esperienze che traspaiono come traumatiche. Egli trasvaluta tutti i valori, alla ricerca di una dottrina politica che gli consenta di comprendere davvero gli eventi.

 

8. Non penso più che possiamo capire i nuovi fatti della vita sociale con l’aiuto di una dottrina stabilita sulla base di fatti precedenti e differenti. Non penso più che la toeria che vede le guerre contemporanee unicamente come il risultato di conflitti economici tra governi imperialisti sia giusta. Non penso più che i soli fenomeni economici possano fornirci la trama di tutta l’evoluzione storica. Non penso più che il socialismo possa essere realizzato indipendentemente dallo sviluppo della democrazia politica. Non penso più che al socialismo basti fare appello agli interessi di classe del proletariato industriale, disdegnando il supporto che certi interessi e ideali comuni all’intera nazione o a tutta l’umanità possono darci. Non penso più che la lotta di classe proletaria, che rimane il mezzo principale per la realizzazione del socialismo, possa condurre ad esso senza ammettere certe forme di collaborazione di classe e di partito. Non credo più che il socialismo possa consistere semplicemente nell’esproprio dei mezzi di produzione di base da parte dello Stato, senza una profonda trasformazione dei processi amministrativi per portare allo sviluppo illimitato della produttività sociale. Non penso più che una società socialista possa essere sostenuta domani se rinuncia allo stimolante che oggi è fornito dalla competizione d’imprese private e di un ineguale frutto del lavoro, proporzionato alla sua produttività sociale. Credo in un socialismo più a portata di mano, più pragmatico, più organico – in una parola, più umano.

 

Egli spiega poi le sue motivazioni di contro al marxismo internazionalista, adducendo come tappa necessaria sul cammino verso il socialismo l’autonomia nazionale e la democrazia politica, entrambe ancora da raggiungere nelle due grandi nazioni europee dove era stata tentata la rivoluzione bolscevica, ovvero Russia e Germania, in quanto nazioni ancora rette da una monarchia di diritto divino. In quest’ottica, la guerra delle potenze dell’Intesa era giustificata anche da un punto di vista socialista proprio perché portava a termine quella rivoluzione borghese di cui parlava Marx. De Man continua a fare riferimento al filosofo di Treviri, anche se ne critica l’economicismo.

 

9. Il metodo del materialismo storico fondato da Marx ci ha abituati troppo a vedere solo il lato economico dei fatti della vita sociale. D’altra parte, il marxismo è stato represso troppo fortemente dal socialismo di Germania e Russia, due Paesi dove la mancanza d’istituzioni democratiche e, quel che è peggio, di tradizioni democratiche ha necessariamente avuto ripercussioni sul punto di vista dei lavoratori.

 

Egli ha ben presente che non è stata una guerra rivoluzionaria socialista, ma nondimeno è stata una guerra rivoluzionaria democratica. Passando poi a confrontare Stati Uniti e Russia, sottolinea le migliori condizioni del primo Paese, in confronto al secondo dove il proletariato, mancando di un’educazione democratica, non è stato in grado di gestire il potere conquistato.

 

10. In Russia, ho visto socialismo senza democrazia. In America, ho visto democrazia senza socialismo. La mia conclusione è che, per parte mia, preferirei, se dovessi scegliere, vivere in una democrazia senza socialismo che in un regime socialista senza democrazia. Questo non significa che io sia più democratico che socialista. Molto semplicemente significa che la democrazia senza socialismo è pur sempre democrazia, mentre il socialismo senza democrazia non è nemmeno socialismo. La democrazia, essendo il governo della maggioranza, può condurre al socialismo, se la maggioranza è a favore di esso; il socialismo, se non è basato sul governo della maggioranza, è un regime dispotico, il che significa o guerra civile o stagnazione.

 

Per risolvere questo problema, il proletariato dovrebbe includere non solamente gli operai, ma anche i tecnici e gli intellettuali, i quali vendono anch’essi la loro forza lavoro, sia pure più specializzata, il che fa di loro dei proletari.

 

11. Non sarei un socialista se non credessi che questa capacità si può trovare in nuce nel proletariato – a condizione che l’espressione includa oltre ai lavoratori manuali coloro, come i tecnici, i colletti bianchi, gli ingegneri, gli studiosi e gli artisti, che oggi vendono la loro forza lavoro intellettuale sul mercato del mondo capitalista. Ma poiché questo nucleo possa svilupparsi e rendere più che non solo vantaggi temporanei, un lungo periodo di adattamento della classe lavoratrice ai nuovi compiti di gestione sociale deve aver luogo.

 

Questa collaborazione tra le classi inferiori, sostiene De Man, ha già in realtà visto in parte la luce nelle trincee, laddove la maggioranza dei combattenti erano appunto proletari (in questo senso allargato). Qui sono state poste le basi sociali per un socialismo democratico, del tutto differente dal socialismo dittatoriale del bolscevismo sovietico.

Riguardo agli Stati Uniti, troviamo interesse nella “Lettera d’America” comparsa, sempre su “Le Peuple”, l’anno successivo. Ciò che l’autore sottolinea, sono le ottime condizioni materiali dei lavoratori americani, in particolare i contadini, rispetto a quelli europei. E a queste si accompagna una superiore istruzione e dunque una vera e propria coscienza di classe, che porrebbe le basi per un movimento socialista di successo.

 

12. Questo è un Paese che dimostra che non è la povertà che crea la più vigorosa coscienza di classe, e che un regime di sfruttamento capitalistico è più minacciato dove la gente comune ha acquisito il più alto grado di benessere materiale ed istruzione, come nel Far West americano. Tutto questo Paese è proprio ora lo sfondo di una grande rinascita della coscienza di classe, sia tra la popolazione rurale, sia tra i lavoratori urbani. È un fenomeno sorprendente, specialmente per un periodo immediatamente successivo a una guerra. La sua espressione più caratteristica è l’alleanza dei sindacati e delle organizzazioni agrarie per sostenere un programma esplicitamente collettivista.

 

La democrazia nel planismo

Il successivo percorso di studio di De Man lo portò a toccare e ad approfondire ben altri argomenti, in particolare relativamente alla critica e al superamento del marxismo da un punto di vista psicologico, come espresso in “Psicologia del socialismo” (1926). La sua critica del marxismo è funzionale però a una radicalizzazione del movimento socialista. Secondo l’autore, infatti, è nella dottrina di Marx che devono essere rintracciati quei tratti filosofici positivisti come il meccanicismo, il razionalismo, l’edonismo materialista, che favoriscono l’imborghesimento dei movimenti marxisti. Un altro problema è la tendenza alla divisione, specie nei partiti di stampo bolscevico, tra dirigenti attivi e masse passive (“Masse e capi”, 1932). Il lato più propriamente psicologico è poi approfondito in “La lotta per la gioia del lavoro” (1927), laddove esamina i moventi psicologici che influenzano positivamente il lavoratore, ovvero principalmente l’utilità sociale, l’interesse personale, e il senso dell’obbligazione sociale; e quelli che lo influenzano negativamente, come l’insicurezza e la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro o l’impossibilità di promozione sociale.

Con “L’idea socialistica” (1933) viene finalmente approfondito un altro tema cruciale, quello dell’imborghesimento del proletario. De Man ricostruisce prima storicamente il passaggio da una borghesia lavoratrice a una borghesia proprietaria e sfruttatrice e poi osserva il processo analogo nel proletariato contemporaneo. Secondo lui, indubbiamente, ha un forte peso il miglioramento delle condizioni di vita, ma il fattore cruciale, che mina a suo parere il marxismo alla base, è il materialismo: la classe operaia lotta non per il bene dell’umanità, ma egoisticamente per il proprio benessere, mirando essenzialmente a rovesciare il dominio borghese e sostituirvisi. In questo senso, riprendendo il pensiero di Spengler e Sombart, il marxismo non è tanto un movimento opposto al capitalismo, quanto interno ad esso. Il socialismo invece doveva prescindere dagli interessi specifici della classe operaia, che a suo parere avrebbero potuto anche essere soddisfatti dal capitalismo, come negli Stati Uniti.

È proprio su queste premesse, che De Man scriverà il “Piano del lavoro” nel 1933, come programma pragmatico di riforma dello Stato dal punto di vista tanto sociale quanto economico.

 

13. L’obiettivo di questo piano è una trasformazione economica e politica del Paese, consistente in: 1) L’istituzione di un sistema economico misto che includa, oltre a un settore privato, un settore nazionalizzato che comprenda il controllo del credito e delle principali industrie che sono già monopolizzate di fatto; 2) La sottomissione dell’economia nazionale così riorganizzata a lle direttive del benessere comune mirante all’allargamento del mercato interno così da ridurre la disoccupazione e da creare condizioni che portino a un’accresciuta prosperità economica; 3) La realizzazione all’interno della sfera politica di una riforma dello Stato e del sistema parlamentare tale da creare le basi per una vera democrazia sociale ed economica.

 

Scendendo in maggiori dettagli riguardanti quest’ultimo punto, che delineino come sia mutata la concezione della democrazia propugnata da De Man, occorre consultare la settima e ultima parte del piano.

 

14. Per rinforzare le basi della democrazia e per preparare istituzioni parlamentari per la realizzazione delle trasformazioni economiche che sono delineate, la riforma dello Stato e del sistema parlamentare deve soddisfare le seguenti condizioni: 1) Tutti i poteri derivano dal suffragio universale non adulterato; 2) L’esercizio delle libertà costituzionali è pienamente garantito a tutti i cittadini; 3) Il sistema politico ed economico assicurerà l’indipendenza e l’autorità dello Stato e del potere pubblico rispetto al potere finanziario; 4) il potere legislativo sarà esercitato da una singola camera, di cui tutti i membri siano eletti con suffragio universale; 5) questa camera, i cui metodi di lavoro saranno semplificati e adattati alle necessità della moderna organizzazione sociale, saranno assistiti nell’elaborare leggi da consigli consultativi, i cui membri saranno scelti in parte fuori dal Parlamento, sulla base della loro riconosciuta competenza; 6) per evitare i pericoli dello statalismo, il Parlamento darà alle agenzie responsabili per legge della gestione dell’economia quei poteri d’implementazione indispensabili alla rapidità d’azione e alla focalizzazione delle responsabilità.

 

Nelle successive tesi di Pontigny del 1934, stabilirà il ruolo del partito all’interno della pianificazione qui delineata, ovvero la piena partecipazione, all’interno del sistema legale e politico democratico alla riforma dello Stato. Questo interventismo, unito alla delusione per l’inerzia del regime borghese e democratico sarà alla base della sua scelta, nel 1940, di appoggiare il fascismo, sperando che potesse compiere quella riorganizzazione dello Stato che né il socialismo né la democrazia erano stati in grado di intraprendere.